venerdì 15 luglio 2011

Paesaggio con Argonauti #1


EINIGE HINGEN AN LICHTMASTEN ZUNGE

HERAUS

VOR DEM BAUCH DAS SCHILD ICH BIN EIN

FEIGLING

mercoledì 13 luglio 2011

Livorno? È come il deserto



















da: Il Tirreno - Livorno

Livorno? È come il deserto

«Pontino e San Marco un tesoro ma sogno che la Porta a Terra sparisca»

LIVORNO. Non ha pause l'estate di Theatralia, che in agosto parteciperà alla nuova edizione del Festival Melodrama, di Jelcz-Laskowice, in Polonia, dove sta approntando con le produzioni che andranno in scena nel mese di agosto, fra cui lo spettacolo "Paesaggio con Argonauti" di Heiner Müller (esponente principale della scuola brechtiana), tre scene di grande intensità dai testi misti in prosa e poesia, nelle quali si alternano assurdità e manie, sesso e comicità. Collage postmoderno ispirato dai classici di Euripide e Seneca, frammentato da quotidiana desolazione. Un'allegoria che rappresenta la fine del mondo capitalistico, declamata nelle diverse lingue d'Europa. La piéce è affidata al giovane regista Jonathan Freschi, che si è preparato intensamente sul testo di Müller e anche sulle diverse tesi collegate allo stesso. Origini livornesi da parte di padre (Marco, istruttore sportivo presso la palestra Nuovo Club a Salviano) e pisano- siculo da parte di madre (Alessandra Bitossi, dipendente di una compagnia assicurativa), un fratello (Yari, secondo ufficiale sulle navi passeggere), Freschi studia all'Università di Pisa, facoltà di Lettere e filosofia (gli manca un esame per dare la tesi) e insegna all'Itis Galilei di Livorno. Ma nei suoi progetti il teatro è al primo posto, così come lo è Livorno, una città che ama, pur guardando con occhio critico chi la governa. Quando ha pensato: mi occuperò di spettacolo? «Verso i dodici anni. Prima di allora ero terrorizzato dalla visione dei film di Charles Chaplin. Vedevo, e non so perché, nelle sue storie la morte. Poi invece sono riuscito a guardare Chaplin con altri occhi, rimanendone folgorato. E ho deciso di occuparmi di qualcosa che avesse a che fare con il suo mondo». Qual è stata la sua prima volta in pubblico? «Nello spettacolo "Giullarata Futurista" diretto da Emanuele Gamba nel 1999, con l'Itis Galilei, dove ho studiato informatica e dove ora insegno». Chi l'ha aiutata e chi invece l'ha ostacolata nel percorso legato alla scena? «La mia strada è stata ricca di molti incontri fortunati, che mi hanno aiutato ad andare nella direzione giusta: da Pardo Fornaciari, a Emanuele Gamba, a Pietro Cennamo. A coetanei come Giorgio de Santis, che lavora con me anche nell'ultima produzione di Theatralia "Paesaggio con Argonauti" di Heiner Müller, uno spettacolo non facile che debutterà in agosto al festival polacco Melodrama». Attore, regista, insegnante, studente un po' in ritardo negli esami. Ma qual è il campo in cui si sente di più nella sua pelle? «Oggi il mio interesse è soprattutto orientato verso il mondo teatrale di cui non potrei fare a meno per sentirmi appagato». Attore o regista. Quale ruolo preferisce? «Non fa differenza. Dipende tutto dal tipo di progetto». Sogno nel cassetto? «Mi auguro che non arrivi nella mia vita quello che temo di più: la noia. E spero che il mio futuro sia ricco di situazioni, incontri, viaggi interessanti (quelli che compio lavorando al seguito delle produzioni di Theatralia, per esempio)». Sogni realizzati? «Sicuramente il sogno di potermi dedicare a tempo pieno ai progetti che mi piacciono, senza dover scontare particolari compromessi». La sua famiglia preferiva per lei un altro percorso o la sostiene? «I miei vogliono solo la mia felicità e hanno scelto di investire in ciò che mi appassionava, benché la mia sia una strada poco rassicurante sotto molti aspetti, soprattutto economici». Quando e come è avvenuto l'incontro con Theatralia? «Ho conosciuto Pietro Cennamo, il suo ideatore e presidente, durante un bellissimo corso intensivo di formazione attoriale di sei mesi, diretto proprio da lui. Un'esperienza interessante che mi ha messo in contatto con insegnanti di discipline attoriali. Mi sono occupato poi, sempre con Cennamo, della messa in scena di Meinhof, Ulrike Es 154/76, rappresentata in anteprima a Berlino e ho seguito altri suoi lavori, come assistente, dando anche una mano all'organizzazione della scorsa edizione della rassegna polacca "Melodrama": la nostra è una collaborazione vincente, che spero duri nel tempo». Parliamo di miti. Quali sono i suoi? «Charlie Chaplin prima di tutto. Poi Carmelo Bene, Edward Gordon Craig, Eimuntas Nekrösius, Bob Wilson, Philip Glass. Lo scrittore Michelangelo La Neve, i cantanti Giovanni Lindo Ferreti e Blixa Bargeld». Testi teatrali preferiti? «"Prometeo Incatenato" di Eschilo e "Macbeth" di Shakespeare». Se potesse decidere con quale regista vorrebbe stare sulle scene? «In questo momento con Eimuntas Nekröius e, anche se appartengono a un mondo diverso, con il gruppo toscano denominato "Gli Omini" molto bravi e fantasiosi». Come regista invece chi vorrebbe dirigere? «Visto che si sta parlando di sogni...sogno a 360º e dico che mi sarebbe piaciuto lavorare con Gian Maria Volontè, magari in un'opera di Bertolt Brecht». Per il suo lavoro è andato e tornato, senza però lasciare Livorno definitivamente. Scelta o obbligo? «Metà e metà. Da una parte non ho mai avuto una reale occasione per trasferirmi altrove, dall'altra le esperienze lavorative che ho fatto nelle grandi città non mi hanno entusiasmato particolarmente e ho dovuto riconoscere che a Livorno, nonostante la situazione imbarazzante che sta vivendo il mondo della cultura, a causa di una classe politica assolutamente inadeguata, si lavora bene ai propri progetti». Se dovesse paragonare la sua città a un soggetto teatrale quale sceglierebbe? «Il paesaggio deserto, distrutto e devastato da una catastrofe atomica raccontato da Muller in "Paesaggio con Argonauti", il testo a cui sto lavorando ora: calza a pennello sul modo in cui vedo Livorno in questi ultimi anni». Pregi e difetti della livornesità? «Amo la tolleranza e lo storico rispetto di alcuni cittadini verso le altre culture, mentre penso che il più grande difetto di questa città si rispecchi nella sua classe politica. Un monolito inamovibile che sta distruggendo quel poco che è rimasto delle nostre tradizioni». Lasciamo stare la politica e parliamo di bellezze del territorio. Quale angolo di Livorno ama di più? «Il Pontino e piazza San Marco». E quale invece toglierebbe dalla carta topografica? «Quel luogo indecente, anche per la vista, chiamato Porta a Terra». Ha ancora degli amici d'infanzia o li ha persi strada facendo? «Le mie amicizie sono durature nel tempo e molte delle persone che frequento (alcune delle quali lavorano con me) le ho conosciute proprio fra l'infanzia o l'adolescenza». Qual è il ricordo più tenero che le viene alla mente se ripensa a lei bambino? «Il giorno che i miei genitori mi regalarono due gattini: una è sempre viva, si chiama Luna, ha 21 anni e mezzo e abita con me». Il suo primo dolore? «La caduta del muro di Berlino e la fine del mondo sovietico». Una gioia indimenticabile? «La scoperta della sessualità». Il suo pregio? «Forse quello di scacciare le certezze come la peste e venerare il dubbio...Anche se i pregi di un individuo dovrebbero elencarli gli altri...». Il suo difetto? «Ne ho molti, uno su tutti che mi rimprovero da sempre, è il fatto di non intervenire abbastanza attivamente nella realtà in cui vivo...Poi sono pigro, scostante e con un bel caratterino...». Cosa farà da grande? «Non lo so, forse il sindaco della mia città...Oppure, con la testa che mi ritrovo, tra un mese potrei essere a vendere cammelli nel deserto!».

11 luglio 2011

Promo del "Calderón" di Pier Paolo Pasolini



Calderón va in scena con il seguente cast: Annalisa Arcai, Marco Bruciati, Irene Catuogno, Jonathan Freschi, Dario Gentili, Silvia Lemmi, Anna Lisa Matarazzo. Costumi Patrizia Tonello e Giordana Vassena, luci e video Alessandro Ferri, suoni Giorgio De Santis, regia Emanuele Gamba.

Pasolini scrive Calderòn nell'anno 1967 ed è lui stesso a recensirlo in occasione della prima rappresentazione, avvenuta al Teatro Metastasio di Prato nel 1978 per la regia di Luca Ronconi.

Pasolini si richiama al grande tragediografo spagnolo del "Siglo de Oro" Pedro Calderón de la Barca (1600-1681) e alla Vida es sueño, considerato il suo capolavoro: come in Calderón i personaggi si chiamano Basilio, Sigismondo, Rosaura, ma la trama è diversa.

Il dramma è ambientato in Spagna, ma nella Spagna franchista del 1967, e si sviluppa, rispetto alla trama, in tre sogni successivi, in tre ambienti: aristocratico, proletario, medioborghese.

Calderòn è soprattutto una parabola sull'impossibilità di evadere dalla propria condizione sociale, una condizione che imprigiona l'uomo in una serie di convenzioni che ne condizionano l'agire ed il pensiero.

La soluzione che adotta Rosaura per cercare un' ipotetica libertà è appunto il sogno, nel quale si rifugia e tramite il quale adotta tre diverse identità: prima la figlia di estrazione aristocratica, poi la prostituta ed infine la moglie borghese piena di frustrazioni.

Il tema della diversità è dunque ricorrente in tutti i sogni, alla luce di un amore diverso e quindi immorale: la passione per il padre, per il proprio figlio o nella proiezione di un figlio (nell'ultimo sogno lo studente Enrique).

In tutti e tre i suoi risvegli, Rosaura si trova in una dimensione occupata interamente dal senso del Potere. Il Potere in Calderón si chiama Basilio ed ha connotati cangianti e mutevoli: è padre e re nel primo quadro, pappone filosofo nel secondo, marito piccolo borghese nell'ultimo. Prima dell'epilogo.

Rosaura, attraverso il sogno, tenta di infrangere e sottrarsi al clima soffocante in cui vive; ma la sua diversità, il suo essere donna, madre, figlia, e il suo puerile tentativo di fuga non porterà a nulla, perché il potere la spingerà "a obbedire senza essere obbediente".

"Solo le persone sane e senza dolore possono vivere rivolte verso il futuro! Le altre - malate e piene di dolore - sono lì, a mezza strada, senza certezze, senza convinzioni e magari tuttora, almeno in parte, vittime del conformismo e dei dogmi di una storia ancora più vecchia, contro cui hanno tanto combattuto: e, se poi partecipano alle nuove lotte, lo fanno senza fiducia, senza ottimismo, e con le bandiere che penzolano come stracci. Così, almeno, in questa nottata del 1967".

venerdì 26 novembre 2010

Alberto Moravia - Non sanno parlare

Nella vita tutto sta a mettere il piede sul primo gradino. Per me, il primo gradino fu la baracca che costruii accosto alla mia casetta, su un rialzo del terreno, tra i sambuchi, lungo la Via Portuense. Stracciarolo e bottigliaro, non avevo capitali; per questo costruii la baracca in economia, spendendo circa venticinquemila lire, mano d'opera non compresa, perché la feci con le mie mani: niente piano rialzato, niente pavimento, niente cucina, niente gabinetto, niente finestre, mura di un solo strato di foratini, tetto di lamiera ondulata. La mia casetta è bianca; la baracca, per distinguerla, la dipinsi di rosa. Subito l'affittai per ottomila lire mensili ad un manovale che si chiamava Michele, soprannominato da tutti Surunto, ossia più che unto, cioè più che sporco. Questo Michele non era di Roma, Dio solo sa di dov'era, forse di qualche paese di montagna, e sembrava proprio un selvaggio: scuro di pelle, la fronte bassa, gli occhi sgranati, infelici, stupefatti, una selva di capelli a spazzolone e la barba sempre lunga, anche la domenica. La moglie era un'altra selvaggia, piccola e olivastra anche lei coi capelli ritti sulla testa. Le tre bambine erano tre selvagge anche loro, brune, gli occhi enormi, i capelli ammatassati e polverosi. Una famiglia di selvaggi.

Noialtri, benché io sia, come ho detto, bottigliaro e stracciarolo, siamo invece una famiglia civile: mia moglie è una brunetta pulita e in ordine, la mia bambina si lava e si pettina, ci ha i fiocchetti alle treccine e i vestitini di bucato, e la nostra casetta, per quanto abusiva, è uno specchio. E poi noi parliamo, vi sembrerà strano che lo dica con orgoglio, ma tra il Surunto, la sua famiglia e noialtri c'era soprattutto questa differenza: noi parlavamo e loro no. Noi dicevamo: - Ho fame, ho sonno, dammi la padella, sta' zitta, buongiorno e buonasera -; loro invece non parlavano veramente ma si esprimevano con certi versi e certi borbottii che sembravano proprio quelli degli animali. Sarà stato dialetto, non discuto, ma era un dialetto strano che rassomigliava tale e quale ai versi delle bestie che, loro, poverette, si fanno capire appunto con i versi e non con le parole. Tanto che glielo dissi al Surunto, il giorno che facemmo il patto: - Intendiamoci: niente uso di gabinetto e di cucina, perché voi siete bestie, e vi conosco e fate presto a ridurre il gabinetto una fogna e la cucina una pattumiera. Ottomila lire per la sola abitazione, siamo intesi? - Lui mi ascoltava con tutta la fronte aggrottata dal grande sforzo che faceva per capirmi e poi disse: - Non siamo bestie, siamo cristiani -; ma lo disse, appunto, con un borbottio cupo e incomprensibile per cui io esclamai, trionfante: - Ecco la prova. Che ti credi di aver detto? Non hai detto proprio niente, hai fatto un verso, come un animale e bravo chi ti capisce. Perciò tu prima impara a parlare e poi torna qui e dimmelo con parole chiare e io ti do il gabinetto e la cucina. Se no, no. -

Subito mi accorsi dell'errore che avevo commesso prendendo questo Surunto; ma ormai era troppo tardi. Le ottomila lire, è vero, lui le pagava perché era onesto; ma tanti erano gli inconvenienti della vicinanza che, secondo me, anche a ottantamila lire ci avrei rimesso. Intanto il sudiciume delle bambine che, stando così appiccicate le due baracche, non si potevano evitare. Le tre bambine che avevano le teste come tre nibbi, giocavano, si capisce, con la mia. Risultato: una mattina, tornando a casa, udii un pianto disperato. Era la mia Rosetta a cui mia moglie, seduta sulla soglia, teneva la testa piegata su un catino per liberarla dai tanti e tanti insetti che le sue tre amiche le avevano regalato. Il Surunto non c'era e io me la presi con la moglie e lei mi venne sotto, con le mani al viso, gridando, al solito, con quel loro borbottio inarticolato per cui alla fine io le dissi: - Ma sta' zitta, tanto non ti capisco. Pensa piuttosto a pettinare le tue bambine. La sai la canzone: ci hai il riccioletto fatto a molla; dentro il pidocchietto ti ci balla; e la cimice ci fa la tarantella. - Ma sì, altro che canzone. Quando non erano le bambine, era la madre, proprio lei, che veniva in casa e dove metteva le mani o i piedi, sporcava; e sempre chiedeva qualche cosa in prestito, ora la padella, ora una forchetta, ora un bicchiere; e quando restituiva l'oggetto, non c'era poi sapone o cenere o acido che bastasse a ripulirlo. Insomma era un pianto continuo; tanto che lo dissi a mia moglie: - Abbiamo fatto un cattivo affare. Adesso tutto sta a resistere alla compassione. Se ci lasciamo andare, siamo perduti. -

Resistere alla compassione: sono cose che si dicono. Venne l'inverno e le disgrazie cominciarono a fioccare fitte fitte sulla testa di Michele. Per prima cosa, per il gran freddo e per la pioggia, sospesero i lavori nel cantiere in cui lui faticava da manovale, così che rimase disoccupato; qualche giorno dopo gli si ammalò la bambina più grande, Leonilde. Mia moglie che è buona buona buona, e tre volte buono vuole dire minchione, andò a visitarli e dopo un poco tornò indietro dicendo che lei non ci resisteva e se non ci credevo, ci andassi anch'io e vedessi tutto quanto con i miei occhi. Vincendo la ripugnanza, entrai, dunque, nella baracca del Surunto, la prima volta da quando gliel'avevo affittata. Dico la verità, ne ho viste di baracche e casette abusive, ma zozza come quella, mai. Siccome cucinavano con una latta di benzina per fornello e facevano il fuoco in terra, le pareti che gli avevo date imbiancate, ormai erano annerite come la bocca di un forno. Tra queste quattro pareti affumicate, in penombra, vidi di tutto un po': fango e acqua in terra; cocci, scarpacce rotte, stracci, scatole vecchie di conserva; due seggiole di paglia sfondate; parecchie cassette da imballaggio; e nel mezzo, un tavolo scuro sul quale stava posata una scodella piena di pasta asciutta fredda del giorno prima. Mi fece impressione questa scodella: sembrava quella in cui mangiano i cani.

Nell'angolo più buio ci stava il letto matrimoniale, di ferro nero, e io aguzzando gli occhi ci intravvidi un involto di stracci e due occhi che brillavano: la bambina malata. Snervato da tanto sudiciume e dal cattivo odore che c'era nella stanza, mi accostai e le misi una mano sulla fronte: scottava. Dissi allora alla madre e al Surunto che mi stavano dietro: - Ma questa bambina che mangia? Che ha mangiato? - La moglie, al solito, con quella sua parlantina cupa e incomprensibile, mi disse qualche cosa che non capii e io gridai esasperato: - Ma possibile che in tanto tempo che siete a Roma, non abbiate ancora imparato a parlare da cristiani? Beh, adesso io ci ho da fare. Mia moglie vi darà qualche cosa da mangiare per la bambina. Ma intanto perché non fate un po' di pulizia?- Altre frasi incomprensibili. Alzai le spalle e uscii dalla baracca.

Quel giorno mia moglie cucinò in casa non soltanto per la bambina malata ma anche per tutta la famiglia e tanto fece che ottenne da quella donna selvaggia che almeno ripulisse un poco la baracca dalle tante porcherie che ci stavano ammucchiate. La sera la bambina stava un po' meglio; e dopo cena ci ritirammo, ciascuno in casa propria. Ma poco prima di mezzanotte incominciò a piovere o meglio cominciò a cascare giù l'acqua come da una botte sfondata; e noi due, a letto, al buio, ascoltavamo quest'acqua che veniva giù a torrenti, spietata, e tutti e due pensavamo la stessa cosa e alla fine mia moglie disse: - Certo quei poveretti qua accanto mi fanno pietà. Non ci hanno niente, non ci hanno lenzuola, coperte, cuscini, non ci hanno piatti, pentole, bicchieri, non ci hanno scarpe, vestiti, sono nudi e crudi, zingarelli. E tu non gli vuoi dare l'uso di cucina e di gabinetto. E per giunta gli fai pagare ottomila lire, che di questi tempi è una bella somma. - Io le risposi: - Lo so che sono nudi e crudi, zingarelli. Ma questa baracca per me è il primo gradino. Se ci metto sopra ben bene il piede, poi posso salire più su. Queste ottomila lire sono la leva con cui posso scalzare la miseria. Non lo capisci questo? Loro stanno sotto di noi e noi gli mettiamo un piede sulla schiena per salire un po' più su. E quanto al gabinetto e alla cucina, a loro che gli serve? Sono bestie e se gli dessi l'uso di cucina e di gabinetto, loro ridurrebbero tutti e due come la casa loro che l'hai vista e lo sai che roba è.

Ma lei insistette: - Così, però, mi tocca cucinare per loro perché non ci ho core di vederli mangiar freddo o cuocere sulla latta di benzina. E quanto al gabinetto, lo sai perché la bambina si è beccato quel febbrone? Perché ha dovuto uscire di notte sotto la pioggia e andare per la campagna a fare i suoi bisogni -. Allora ta-gliai corto: - Che ti credi che abbiano fatto quelli che hanno i quattrini e girano con l'automobile? Hanno messo anche loro il piede su un primo gradino. Lo so che sono uno sfruttatore, ma lo sono per amore della famiglia e a questo mondo chi non sfrutta finisce per essere sfruttato. - Insomma, discutevamo al buio, men-tre continuava quel diluvio, quando, ecco, picchiano alla porta. Mi alzo, vado ad aprire e vedo Michele. Sembrava un'apparizione, tutto gocciolante, col cappelletto nero aggrondato sugli occhi, fradicio da far pensare che avesse fatto allora allora un tuffo nel Tevere. Gli domando quel che volesse e lui risponde con il solito borbottio cupo qualche cosa che non capisco. Allora io, spazientito, l'acchiappo per il bavero e lo scuoto come un pupazzo gridando: - Ma parla da cristiano, parla, che io non ti capisco un accidenti. - Lui non si muove, ripete il borbottio. Finalmente, un grido di mia moglie che era rimasta a letto: -Giovacchino, dice che gli piove dentro la baracca.

Breve, mi rivestii e uscii con Michele. Pioveva a torrenti nella notte nera e c'era anche il vento, di tramontana, che ora spingeva l'ondata della pioggia per un verso e ora per un altro. Entrammo nella baracca, al buio, e tosto sentii l'acqua scivolarmi tra il collo e il bavero, gelata, giù per la schiena. Pioveva tra due foglie di bandone che non si sa come, forse per via del vento, si erano spostate; e non pioveva a gocce, pioveva proprio forte come se fossimo stati all'aperto. Dissi imbestialito: - Ma accendi un lume. - Il Surunto mi rispose dal buio una frase smozzicata che non capii, forse voleva dire che non ce l'aveva il lume, e io allora fregai un fiammifero e alla luce della fiammella vidi l'acqua in terra e il fango e i bacherozzi e vidi che pioveva anche sul fondo del letto, per cui la madre e le tre bambine si erano ritirate tutte insieme in su, verso il capezzale, formando un grande mucchio come di biancheria sporca. Insomma non si potevano fare che due cose: o prendere il Surunto e la famiglia in casa nostra per quella notte; oppure riparare il tetto. Preferii fare la seconda; e così passai un'ora a camminare in su e in giù dalla baracca mia alla sua e poi, sempre sotto la pioggia che veniva giù a secchiate, salii sul tetto e aggiunsi due foglie di bandone e ci misi sopra tre o quattro pietre per farle star ferme.

Ci credereste? Dopo, ci misi quasi due ore a riprender sonno, un po' per il gran freddo, che non facevo che tremare, un po' per il nervoso, perché pensavo che Surunto, la moglie e le bambine mi facevano compassione e al tempo stesso non volevo che mi facessero compassione e poi mi arrabbiavo di non volere e alla fine non capivo più se mi facessero compassione o non me la facessero. Mia moglie, che mi sentiva inquieto, disse alla fine: - Ma perché non dormi? Loro, qua accanto, con tutti i guai che ci hanno, dormono e tu che stai tanto meglio di loro, non dormi? - Tesi l'orecchio e, infatti, attraverso la parete sottile, udii il russare che faceva il Surunto, proprio di gusto; e questo russare in certo modo mi rassicurò e mi calmò e finalmente mi addormentai.

Il mattino dopo non pioveva più; e proprio sul momento che stavo andando via con il carrettino, ecco, si presenta il Surunto. Ritto sulla soglia, il cappelletto sugli occhi, disse, al solito, qualche cosa che non capii. Ma questa volta non volli perdere tempo e gli dissi: - Vuoi dirmi che sei disoccupato e che non ci hai soldi e che, insomma, non puoi pagarmi la mesata. Non è così? - Lui sgranò gli occhi e accennò di sì. Allora io, snervato, gli gridai: - Senti, te l'abbuono la mesata. E mi pagherai quando potrai. Per ora ci starai gratis nella baracca, gratis, hai capito? - Lui accennò ancora di sì, e poi borbottò qualche cosa, come per dire: - Ti ringrazio, Dio te ne renda merito. - E io allora, furibondo, gli gridai ancora: - E se volete cucinare, venite pure qui, vi do l'uso di cucina. Hai capito? - Lui accennò di sì per la terza volta e poi se ne andò. Mia moglie approvò il gesto, ma disse: -Visto che hai fatto trenta, potevi fare trentuno, e dargli anche il gabinetto. - Io risposi: - Glielo darò uno di questi giorni, ma non posso darglielo subito, voglio abituarmi all'idea. Sono bestie, non sanno neppure parlare, non lo vedi che non sanno parlare? - E lei: - Bisogna aver pazienza con loro, saranno bestie ma sono anche cristiani. - E io: - Sì, ma intanto il primo gradino, così, invece di salirlo, l'abbiamo sceso. E se continuiamo in questo modo, quando saliremo?


(Alberto Moravia, Non sanno parlare, in Nuovi racconti romani, Milano, Bompiani, 1974)

martedì 5 ottobre 2010

Riva abbandonata Materiale per Medea Paesaggio con Argonauti



VERKOMMENES UFER MEDEAMATERIAL LANDSCHAFT MIT ARGONAUTEN

von Heiner Müller



See bei Straußberg Verkommenes Ufer Spur

Flachstirniger Argonauten



Schilfborsten Totes Geäst

DIESER BAUM WIRD MICH NICHT ÜBER-

WACHSEN Fischleichen n Glänzen im Schlamm Keksschachteln Kothaufen

FROMMS ACT CASINO

Die zerrissenen Monatsbinden Das Blut

Der Weiber von Kolchis

ABER DU MUSST AUFPASSEN JA

JA JA JA JA

SCHLAMMFOTZE SAG ICH ZU IHR DAS IST

MEIN MANN

STOSS MICH KOMM SÜSSER

Bis ihm die Argo den Schädel zertrümmert das nicht

mehr gebrauchte

Schiff

Das im Baum hängt Hangar und Kotplatz der Geier

im Wartestand

Sie hocken in den Zügen Gesichter aus Tagblatt und

Speichel

Starrn jeder in der Hose ein nacktes Glied auf gelacktes

Fleisch Rinnstein der drei Wochenlöhne kostet Bis der

Lack

Aufplatzt Ihre Weiber stellen das Essen warm hängen

die Betten in die Fenster bürsten

Das Erbrochene aus dem Sonntagsanzug Abflußrohre

Kinder ausstoßend in Schüben gegen den Anmarsch der

Würmer

Schnaps ist billig

Die Kinder pissen in die leeren Flaschen

Traum von einem ungeheuren

Beischlaf in Chicago

Blutbeschmierte Weiber

In den Leichenhallen



Die Toten starren nicht ins Fenster

Sie trommeln nicht auf dem Abort

Das sind sie Erde von den Überlebenden beschissen

EINIGE HINGEN AN LICHTMASTEN ZUNGE

HERAUS

VOR DEM BAUCH DAS SCHILD ICH BIN EIN

FEIGLING



Auf dem Grund aber Medea den zerstückten

Bruder im Arm Die Kennerin

Der Gifte





  • MEDEAMATERIAL LANDSCHAFT MIT ARGONAUTEN



MEDEA

Jason Mein Erstes und mein Letztes Amme

Wo ist mein Mann

AMME

Bei Kreons Tochter Frau

MEDEA

Bei Kreon sagtest du

AMME

Bei Kreons Tochter

MEDEA

Hast du gesagt bei Kreons Tochter Ja

Warum bei Kreons Tochter nicht die Macht hat

Wohl über Kreon ihren Vater der

Uns geben kann das Wohnrecht in Korinth

Oder austreiben in ein andres Ausland

Gerade jetzt vielleicht umfaßt er Jason

Mit Bitten ihre faltenlosen Knie

Für mich und seine Söhne die er liebt

Weinst oder lachst du Amme

AMME

Herrin ich

Bin älter als mein Weinen oder Lachen

MEDEA

Wie lebst du in den Trümmern deines Leibs

Mit den Gespenstern deiner Jugend Amme

Bring einen Spiegel Das ist nicht Medea

Jason

JASON

Weib was für eine Stimme

MEDEA

Ich

Bin nicht erwünscht hier Daß ein Tod mich wegnähm

Dreimal fünf Nächte Jason hast du nicht

Verlangt nach mir Mit deiner Stimme nicht

Und nicht mit eines Sklaven Stimme noch

Mit Händen oder Blick

JASON

Was willst du

MEDEA

Sterben

JASON

Das hört ich oft

MEDEA

Bedeutet dieser Leib

Dir nichts mehr Willst du mein Blut trinken Jason

JASON

Wann hört das auf

MEDEA

Wann hat es angefangen Jason

JASON

Was warst du vor mir Weib

MEDEA

Medea

Du bist mir einen Bruder schuldig Jason

JASON

Zwei Söhne gab ich dir für einen Bruder

MEDEA

Du Mir Liebst du sie Jason deine Söhne

Willst du sie wiederhaben deine Söhne

Dein sind sie Was kann mein sein deiner Sklavin

Alles an mir dein Werkzeug alles aus mir

Für dich hab ich getötet und geboren

Ich deine Hündin deine Hure ich

Ich Sprosse auf der Leiter deines Ruhms

Gesalbt mit deinem Kot Blut deiner Feinde

Und wenn du zum Gedächtnis deines Siegs

Über mein Land und Volk der mein Verrat war

Aus ihren Eingeweiden einen Kranz

Um deine Schläfe flechten willst dein sind sie

Mein Eigentum die Bilder der Erschlagnen

Die Schreie der Geschundnen mein Besitz

Seit ich aus Kolchis auszog meiner Heimat

Auf deiner Blutspur Blut aus meinesgleichen

In meine neue Heimat den Verrat

Blind für die Bilder für die Schreie taub

War ich bis du das Netz zerrissen hast

Gestrickt aus meiner und aus deiner Lust

Das unsre Wohnung war mein Ausland jetzt

In seinen Maschen steh ich ausgerenkt

Die Asche deiner Küsse auf den Lippen

Zwischen den Zähnen den Sand unsrer Jahre

Auf meiner Haut nur meinen eignen Schweiß

Dein Atem ein Gestank aus fremdem Bett

Ein Mann gibt seiner Frau den Tod zum Abschied

Mein Tod hat keinen andern Leib als deinen

Bist du mein Mann bin ich noch deine Frau

Könnt ich sie aus dir beißen deine Hure

An die du mich verraten hast und meinen

Verrat der deine Lust war Dank für deinen

Verrat der mir die Augen wiedergibt

Zu sehen was ich sah die Bilder Jason

Die mit den Stiefeln deiner Mannschaft du

Gemalt hast auf mein Kolchis Ohren wieder

Zu hören die Musik die du gespielt hast

Mit Händen deiner Mannschaft und mit meinen

Die deine Hündin war und deine Hure

Auf Leibern Knochen Gräbern meines Volks

Und meinen Bruder Meinen Bruder Jason

Den ich deinen Verfolgern in den Weg warf

Zerstückt von diesen meinen Schwesterhänden

Für deine Flucht vor dem beraubten Vater

Meinem und seinem Liebst du deine Söhne

Willst du sie wieder haben deine Söhne

Du bist mir einen Bruder schuldig Jason

Wen liebt ihr mehr Den Hund oder die Hündin

Wenn ihr dem Vater schöne Augen macht

Und seiner neuen Hündin und dem König

Der Hunde in Korinth hier ihrem Vater

Vielleicht ist euer Platz an seinem Trog

Nimm Jason was du mir gegeben hast

Die Früchte des Verrats aus deinem Samen

Und stopf es deiner Hure in den Schoß

Mein Brautgeschenk für dein und ihre Hochzeit

Geht mit dem Vater der euch liebt Und so

Daß er die Mutter wegtritt die Barbarin

Weil euren Weg nach oben sie beschwert

Wollt ihr nicht sitzen an der hohen Tafel

Ich war die Milchkuh eure Fußbank jetzt

Wollt ihr Seh ich nicht eure Augen glänzen

Im Vorschein auf das Glück der satten Bäuche

Was klammert ihr euch noch an die Barbarin

Die eure Mutter ist und euer Makel

Schauspieler seid ihr Kinder des Verrats

Schlagt eure Zähne in mein Herz und geht

Mit eurem Vater ders getan hat vor euch

Laß mir die Kinder Jason einen Tag noch

Dann will ich gehn in meine eigne Wüste

Du bist mir einen Bruder schuldig Jason

Nicht lange kann ich hassen was du liebst

Die Liebe kommt und geht Nicht weise war ich

Das zu vergessen Zwischen uns kein Groll

Mein Brautkleid nimm als Brautgeschenk für deine

Schwer geht das Wort mir von den Lippen Braut

Die deinen Leib umfangen wird weinen

An deiner Schulter manchmal stöhnen im Rausch

Das Kleid der Liebe meiner andern Haut

Gestickt mit Händen der Beraubten aus

Dem Gold von Kolchis und gefärbt mit Blut

Vom Hochzeitsmahl aus Vätern Brüdern Söhnen

Soll deine neue Liebe kleiden wie

In meine Haut Dir nah sein werd ich so

Nah deiner Liebe ganz entfernt von mir

Nun geh in deine neue Hochzeit Jason

Ich will die Braut zur Hochzeitsfackel machen

Seht eure Mutter gibt euch jetzt ein Schauspiel

Wollt ihr sie brennen sehn die neue Braut

Das Brautkleid der Barbarin ist begabt

Mit fremder Haut sich tödlich zu verbinden

Wunden und Narben geben gutes Gift

Und Feuer speit die Asche die mein Herz war

Die Braut ist jung wie Glatt spannt sich das Fell

Vom Alter nicht von keiner Brut verwüstet

Auf ihren Leib jetzt schreibe ich mein Schauspiel

Ich will euch lachen hören wenn sie schreit

Vor Mitternacht wird sie in Flammen stehn

Geht meine Sonne auf über Korinth

Ich will euch lachen sehn wenn die mir aufgeht

Mit meinen Kindern teilen meine Freude

Jetzt tritt der Bräutigam ins Brautgemach

Jetzt legt er seiner jungen Braut zu Füßen

Das Brautkleid der Barbarin das Brautgeschenk

Getränkt mit meinem Schweiß der Unterwerfung

Jetzt spreizt sie sich die Hure vor dem Spiegel

Jetzt schließt das Gold von Kolchis ihr die Poren

Pflanzt einen Wald von Messern ihr ins Fleisch

Das Brautkleid der Barbarin feiert Hochzeit

mit deiner Jason jungfräulichen Braut

Die erste Nacht ist mein Es ist die letzte

Jetzt schreit sie Habt ihr Ohren für den Schrei

So schrie als ihr in meinem Leib lagt Kolchis

Und schreit noch Habt ihr Ohren für den Schrei

Sie brennt Lacht ihr Ich will euch lachen sehn

Mein Schauspiel ist eine Komödie Lacht ihr

Wie Tränen für die Braut Ah meine kleinen

Verräter Nicht für nichts habt ihr geweint

Aus meinem Herzen schneiden will ich euch

Mein Herzfleisch Mein Gedächtnis Meine Lieben

Gebt mir mein Blut zurück aus euren Adern

In meinen Leib zurück euch Eingeweide

Heute ist Zahltag Jason Heute treibt

Deine Medea ihre Schulden ein

Könnt ihr jetzt lachen Der Tod ist ein Geschenk

Aus meinen Händen sollt ihr das empfangen

Ganz abgebrochen hinter mir hab ich

Was Heimat hieß jetzt hinter uns mein Ausland

Daß es nicht Heimat wird euch mir zum Hohn

Mit diesen meinen Menschenhänden Ach

Wär ich das Tier geblieben das Ich war

Eh mich ein Mann zu seiner Frau gemacht hat

Medea Die Barbarin Jetzt verschmäht

Mit diesen meinen Händen der Barbarin

Händen zerlaugt zerstickt zerschunden vielmal

Will ich die Menschheit in zwei Stücke brechen

Und wohnen in der leeren Mitte Ich

Kein Weib kein Mann Was schreit ihr Schlimmer als

Tod

Ist alt sein Küssen würdet ihr die Hand

Die euch den Tod schenkt kenntet ihr das Leben

Das war Korinth Wer seid ihr Wer hat euch

Gekleidet in die Leiber meiner Kinder

In euren Augen welches Tier versteckt sich

Stellt ihr euch tot Die Mutter täuscht ihr nicht

Schauspieler seid ihr Lügner und Verräter

Bewohnt von Hunden Ratten Schlangen seid ihr

Das bellt und pfeift und zischt Ich hör es gut

O ich bin klug ich bin Medea Ich

Habt ihr kein Blut mehr Jetzt ist alles still

Die Schreie von Kolchis auch verstummt Und nichts

mehr

JASON

Medea

MEDEA

Amme Kennst du diesen Mann





  • LANDSCHAFT MIT ARGONAUTEN



Soll ich von mir reden Ich wer

Von wem ist die Rede wenn

Von mir die Rede geht Ich Wer ist das

Im Regen aus Vogelkot Im Kalkfell

Oder anders Ich eine Fahne ein

Blutiger Fetzen ausgehängt Ein Flattern

Zwischen Nichts und Niemand Wind vorausgesetzt

Ich Auswurf eines Mannes Ich Auswurf

Einer Frau Gemeinplatz auf Gemeinplatz Ich Traumhölle

Die meinen Zufallsnamen trägt Ich Angst

Vor meinem Zufallsnamen

MEIN GROSSVATER WAR

IDIOT IN BÖOTIEN

Ich meine Seefahrt

Ich meine Landnahme Mein

Gang durch die Vorstadt Ich Mein Tod

Im Regen aus Vogelkot Im Kalkfell

Der Anker ist die letzte Nabelschnur

Mit dem Horizont vergeht das Gedächtnis der Küste

Vögel sind ein Abschied Sind ein Wiedersehn

Der geschlachtete Baum pflügt die Schlange das Meer

Dünn zwischen Ich und NichtmehrIch die Schiffswand

SEEMANNSBRAUT IST DIE SEE

Die Toten sagt man stehen auf dem Grund

Aufrechte Schwimmer Bis die Knochen ruhn

Paarung der Fische im ausgeweideten Brustkorb

Muscheln am Schädeldach

Durst ist Feuer

Wasser heißt was auf der Haut brennt

Hunger kaut das Zahnfleisch Salz die Lippen

Zoten stacheln das einsame Fleisch

Bis der Mann nach dem Mann greift

Frauenwärme ist ein Singsang

Die Sterne sind kalte Wegweiser

Der Himmel übt eisige Aufsicht

Oder die glücklose Landung Gegen das Meer zischt

Der Knall der Bierdosen

AUS DEM LEBEN EINES MANNES

Erinnerung an eine Panzerschlacht

Mein Gang durch die Vorstadt Ich

Zwischen Trümmern und Bauschutt wächst

DAS NEUE Fickzellen mit Fernheizung

Der Bildschirm speit Welt in die Stube

Verschleiß ist eingeplant Als Friedhof

Dient der Container Gestalten im Abraum

Eingeborene des Betons Parade

Der Zombies perforiert von Werbespots

In den Uniformen der Mode von gestern vormittag

Die Jugend von heute Gespenster

Der Toten des Krieges der morgen stattfinden wird

WAS BLEIBT ABER STIFTEN DIE BOMBEN

In der prachtvollen Paarung von Eiweiß und Dosenblech

Die Kinder entwerfen Landschaften aus Müll

Eine Frau ist der gewohnte Lichtblick

ZWISCHEN DEN SCHENKELN HAT

DER TOD EINE HOFFNUNG

Oder der Jugoslawische Traum

Zwischen zerbrochnen Statuen auf der Flucht

Vor einer unbekannten Katastrophe

Die Mutter im Schlepptau die Alte mit dem Tragholz

Im rostigen Harnisch läuft DIE ZUKUNFT mit

Ein Rudel Schauspieler passiert im Gleichschritt

MERKT IHR NICHT DASS SIE GEFÄHRLICH

SIND ES SIND

SCHAUSPIELER JEDES STUHLBEIN LEBT EIN

HUND

Wortschlamm aus meinem

Verlassenen Niemandsleib

Wie herausfinden aus dem Gestrüpp

Meiner Träume das um mich herum

Ohne Laut langsam zuwächst

Ein Fetzen Shakespeare

Im Paradies der Bakterien

Der Himmel ist ein Handschuh auf der Jagd

Maskiert mit Wolken unbekannter Bauart

Rast auf dem toten Baum Die Leichenschwestern

Meine Finger spielen in der Scheide

Nachts im Fenster zwischen Stadt und Landschaft

Sahn wir dem langsamen Sterben der Fliegen zu

So stand Nero über Rom im Hochgefühl

Bis der Wagen vorfuhr Sand im Getriebe

Ein Wolf stand auf der Straße als er auseinanderbrach

Busfahrt im Morgengrauen Rechts und links

Die Schwestern dampfend unter dem Kleid Der Mittag

Stäubte ihre Asche auf mein Fell

Während der Fahrt hörten wir die Leinwand reißen

Und sahn die Bilder ineinander stürzen

Die Wälder brannten in EASTMAN COLOR

Aber die Reise war ohne Ankunft NO PARKING

An der einzigen Kreuzung mit einem Auge

Regelte Polyphem den Verkehr

Unser Hafen war ein totes Kino

Auf der Leinwand verfaulten die Stars in Konkurrenz

Im Kassenraum würgte Fritz Lang Boris Karloff

Der Südwind spielte mit alten Plakaten

ODER DIE GLÜCKLOSE LANDUNG Die toten

Neger

Wie Pfähle in den Sumpf gerammt

In den Uniformen ihrer Feinde

DO YOU REMEMBER DO YOU NO I DONT

Das getrocknete Blut

Qualmt in der Sonne

Das Theater meines Todes

War eröffnet als ich zwischen den Bergen stand

Im Kreis der toten Gefährten auf dem Stein

Und über mir erschien das erwartete Flugzeug

Ohne Gedanken wußte ich

Diese Maschine war

Was meine Großmütter Gott genannt hatten

Der Luftdruck fegte die Leichen vom Plateau

Und Schüsse knallten in meine torkelnde Flucht

Ich spürte MEIN Blut aus MEINEN Adern treten

Und MEINEN Leib verwandeln in die Landschaft

MEINES Todes

IN DEN RÜCKEN DAS SCHWEIN

Der Rest ist Lyrik Wer hat bessre Zähne

Das Blut oder der Stein

Der Text braucht den Naturalismus der Szene. VERKOMMENES UFER kann bei laufendem Betrieb in einer Peepshow gezeigt werden, MEDEAMATERlAL an einem See bei Straußberg, der ein verschlammter Swimmingpool in Beverly Hills oder die Badeanstalt einer Nervenklinik ist. Wie MAUSER eine Gesellschafi der Grenzüberschreitung, in der ein zum Tod Verurteilter seinen wirklichen Tod auf der Bühne zur kollektiven Erfahrung machen kann, setzt LANDSCHAFT MIT ARGONAUTEN die Katastrophen voraus, an denen die Menschheit arbeitet. Die Landschaft mag ein toter Stern sein, auf dem ein Suchtrupp aus einer andern Zeit oder aus einem andern Raum eine Stimme hört und einen Toten findet. Wie in jeder Landschaft ist das Ich in diesem Textteil kollektiv. Die Gleichzeitigkeit der drei Textteile kann beliebig dargestellt werden.

Riva abbandonata Materiale per Medea

Paesaggio con Argonauti

di Heiner Müller


  • Medea


Non bussano al cesso

Ecco cosa sono Terra smerdata da chi gli sopravvive

QUALCUNO PENDEVA DAI LAMPIONI CON LA LINGUA PENZOLONI

E CON SULLA PANCIA IL CARTELLO SONO UN VILE

Sullo sfondo pero' Medea con il fratello

Il braccio Tagliato a pezzi L'esperta

In veleni


  • Riva abbandonata Materiale per Medea

Paesaggio con Argonauti


Lago a Straußerg Riva abbandonata Traccia

Di Argonauti dalla fronte piatta

Chiome di canna Ramaglia morta

QUESTO ALBERO NON CRESCERÀ SOPRA DI ME

Cadaveri di pesci

Barbagli nel fango Scatole di biscotti

Mucchi di letame PRESERVATIVI FROMMS ACT CASINO

Gli assorbenti igienici stracciati Il sangue

Delle donne della Colchide

MA TU DEVI FARE ATTENZIONE SÌ

SÌ SÌ SÌ SÌ

FIGA DI MERDA LE DICO QUESTO È IL MIO UOMO

STRAPAZZAMI VIENI CARO

Finché l'Argo non gli spacca il cranio vascello non più

Usato

Che sta appeso all'albergo hangar e latrina degli avvoltoi posati

in attesa

Appollaiati nei treni Facce di giornale e sputi

Ognuno indurisce nei calzoni un membro nudo per un po' di carne

Laccata lavandino che costa tre settimane di salario Finché

La lacca non si crepa Le loro donne tengono in caldo il pranzo appendono

le lenzuola alle finestre spazzolano

Gli avanzi del vomito dell'abito della domenica Tubi di scarico

Che vomitano bambini a grappoli incontro all'avanzata dei vermi

La grappa è a buon mercato

I bambini pisciano nelle bottiglie vuote

Segno di un immane

Accoppiamento a Chicago

Donne imbrattate di sangue

Negli obitori

I morti non sbirciano dalla finestra



  • Materiale per Medea Paesaggio con Argonauti


MEDEA:

Giasone Mia prima e ultima nutrice

Dov'è mio marito


NUTRICE:

Dalla figlia del re Creonte signora


MEDEA:

Da Creonte hai detto


NUTRICE:

Dalla figlia di Creonte


MEDEA:

Si Hai detto dalla figlia di Creonte ho capito

E perché dalla figlia Non ha forse potere

Su Creonte sul padre Lui può farci restare

A Corinto per tutto il tempo che vogliamo

Oppure mandarci via e cacciarci lontano

Forse adesso Giasone le abbraccia le ginocchia

Ancora lisce e la implora per me e per i

Suoi figli che adora Nutrice, che fai

Stai piangendo o ridendo


NUTRICE:

Signora sono più vecchia del riso e del pianto


MEDEA:

E come fai a vivere tra le rovine del

Tuo corpo e con gli spettri della tua giovinezza

Balia porta uno specchio Questa non è Medea

Giasone


GIASONE:

Cos'è questo tono


MEDEA:

Io

Non sono gradita qui Mi prendesse la morte

Tre volte cinque notti Giasone non hai chiesto

Di me Non con la tua voce e neppure con quella

Di uno schiavo e non con un gesto o almeno con

Uno sguardo


GIASONE:

Che cosa vuoi


MEDEA:

Morire


GIASONE:

Questa l'ho già sentita


MEDEA:

Non ti dice più niente

Questo corpo Vuoi bere il mio sangue Giasone


GIASONE:

Ma quando la finisci


MEDEA:

Quando è cominciata


GIASONE:

Cosa eri prima di me


MEDEA:

Medea

E tu Giasone mi sei debitore d'un fratello


GIASONE:

T'ho dato ben due figli in cambio d'un fratello


MEDEA:

Tu a me Se li ami anche tu i figli tuoi

Giasone, allora li vorrai riavere Sono tuoi

Cosa può essere mio Io sono la tua schiava

Non sono che strumento e anche quel che faccio

È tuo Ho ucciso e partorito sempre per te

Io che sono la tua cagna la tua brava puttana

Nient'altro che gradino per salire alla gloria

Glorificato solo dagli escrementi tuoi

E dal sangue versato dai tuoi molti nemici

E se per celebrare la tua grande vittoria

Sul mio paese e sulla mia nazione vittoria

Che hai strappato solo per il mio tradimento

Tu ti vuoi intrecciare alle tempie una corona

Fatta con le loro budella ebbene sono tue

Tuo il mio patrimonio, le smorfie degli uccisi

E gli urli degli scorticati tutte cose che

Conservo da quando ho lasciato la Colchide

Il mio paese, inseguendo le tracce del tuo sangue

Sangue d'un mio simile verso la nuova patria

Che era un tradimento Sono stata cieca e sorda

A quello che facevi finché non hai strappato

Il nido tessuto col mio e col tuo piacere

Che era la nostra casa ed oggi il mio esilio

Ora sto nella gabbia e sono qui tutta rotta

Con la cenere dei tuoi baci sulle labbra

E tra i denti tutta la sabbia dei nostri anni

Ma sulla pelle soltanto il mio proprio sudore

Mentre il tuo fiato puzza di un letto diverso

Un uomo alla sua donna dà come addio la morte

E la mia morte non ha altro corpo che il tuo

Sarò la tua donna finché sarai mio marito

Oh potessi strapparti coi denti dal tuo corpo

la puttana che ti è servita per ingannarmi

E rivedere, grazie al tuo tradimento

Che mi ridà la vista quell'altro atroce inganno

Che ti ha fatto godere: il mio tradimento!

Si Giasone vorrei rivedere quel che ho visto:

Le scene che hai inciso con i duri stivali

Dei tuoi soldati nella mia povera Colchide

E vorrei sentire la musica che hai suonato

Con mani di armati e anche con le mie

Che ero la tua cagna la tua brava puttana

Su corpi ossa tombe di tutta la mia gente

E anche del fratello sì di mio fratello che

Ho gettato a chi ti inseguiva Giasone

Tagliato a pezzi proprio da queste care mani

Di sorella per farti fuggire da mio padre

Padre anche suo che tu avevi rapinato

Se tu ami i tuoi figli vorrai pure riaverli

Questi figli tuoi! E sai che mi devi un fratello

Giasone Ma voi chi amate di più: il cane o

La cagna quando fate gli occhietti a vostro padre

E anche a quella sua cagna nuova e pure al re

Il cane qui di Corinto che è il padre di lei

Forse il vostro posto è alla sua mangiatoia

Prendi Giasone quello che mi hai regalato

I frutti dell'inganno fatti con il tuo seme

E riempine il ventre di quella gran puttana

È il mio dono di nozze per questo sposalizio

Andate con vostro padre che vi ama Così

Potrà buttar via vostra madre la barbara

Che è d'impaccio alla vostra ascesa nella corte

Non volete sedere a quell'altissima mensa

Io sono stata per voi un mucca da latte

Adesso sono solo il vostro poggiapiedi

Lo volete Non vedo splendere i vostri occhi

Nel pregustare la gioia d'aver la pancia piena

Ma che cosa vi tiene ancora incollati

A questa barbara madre che è la vostra tara

Figli recitate anche voi il tradimento

Affondate i denti dentro il mio cuore e andate

Con vostro padre che l'ha compiuto davanti a voi

Lasciami i bambini Giasone ancora un giorno

E poi ritornerò nelle mie terre deserte

Ricorda che mi sei debitore d'un fratello

Ma non riesco a odiare a lungo quel che ami

L'amore viene e va Io non sono stata saggia

A scordarmene No nessun rancore tra noi

Prendi il mio abito nuziale come regalo

Per la tua mi è difficile dirlo nuova sposa

Che abbraccerà il tuo corpo e piangerà sulla tua

Spalla qualche volta gemendo tra i sussurri

L'abito d'amore che è un'altra mia pelle

È stato ricamato con oro di Colchide

Dalle mani di quelli che abbiamo derubati

E colorato col sangue versato al pranzo

Nuziale di padri e di figli e di fratelli

Vorrei che rivestisse questo tuo nuovo amore

Come lo vestirebbe la mia stessa pelle

Così potrò starti vicina tanto vicina

Al tuo amore che pure è tanto lontano da me

E adesso Giasone va alle tue nuove nozze

Io farò della sposa una torcia nuziale

Guardate vostra madre bambini che adesso

Vi fa vedere un gioco Non volete anche voi

Vedere andare a fuoco la nuova sposa

L'abito di nozze della barbara ha lo strano

Potere di fondersi mortalmente addosso

A una pelle diversa Ferite e cicatrici

Dànno un buon veleno E quel mucchio di cenere

Che è stato il mio cuore sta risputando fuoco

La sposa è giovane tremendamente giovane

Come si stende liscia sul suo corpo la pelle

Che nessuna vecchiaia e nessun parto hanno

Ancora guastato Adesso le scrivo il mio

Spettacolo sul corpo Oh ma come vi voglio

Sentir ridere quando si metterà a urlare

Prima di mezzanotte sarà tutta una fiamma

Il mio sole si alza proprio sopra Corinto

Voglio vedervi ridere quando si leverà

Questo mio sole per prender parte alla mia grande

Gioia e al vostro spasso piccoli figli miei

Ecco lo sposo entra nella stanza nuziale

E lui depone ai piedi della sua nuova moglie

Il dono della barbara l'abito nuziale

Intriso del sudore della sottomissione

Mia Ecco ora corre allo specchio la sgualdrina

E adesso l'oro di Colchis le chiude i pori e

Le ficca nella carne una selva di pugnali

L'abito nuziale della barbara festeggia

Le tue nozze con la sposa vergine Giasone

Ed è mia la sua prima e ultima notte

Ah sì adesso grida Fatevi tutti orecchi

Così urlava la Colchide quando mi stavate

Nel corpo E ancora urla Fatevi tutti orecchi

Sta bruciando Ridete Vi voglio veder ridere

È una commedia il mio spettacolo Ridete

Ma come Lacrime per la sposa Ah miei piccoli

Traditori Però non avrete pianto invano

Io vi voglio estirpare tutti dal mio cuore

Voi carne del mio cuore e mia memoria O cari

Ridatemi il mio sangue qui dalla vostre vene

Su tornatemi dentro il mio corpo viscere mie

Oggi è giorno di paga Giasone oggi la tua

Medea finalmente riscuote i suoi debiti

Adesso si che ridete La morte è un regalo

Che voi riceverete dalle mie proprie mani

Ho rotto i ponti alle spalle con il mio paese

E adesso non rimane dietro a noi che questa

Terra straniera che a voi non può essere

Patria se non per mia vergogna Con le mie mani

Ahi se fossi rimasta quella belva che ero

Prima che uomo facesse di me la sua donna

Medea la barbara che adesso è ripudiata

Ora però con queste mie barbariche mani

Ruvide per il tanto lavare e cucire

Voglio spezzare in due tutta l'umanità

E sedermi nel vuoto tra due tronconi Io

Ne donna ne uomo Che cosa gridate a fare

Assai peggio della morte è diventare vecchi

Voi bacereste grati la mia mano che adesso

Vi regala la morte se soltanto sapeste

Che cosa è la vita Così è andata a Corinto

Ma voi chi siete e chi vi ha vestiti in questi

Corpi dei miei bambini Anche nei vostri occhi

Si nasconde una belva Su adesso da bravi

Stendetevi a morire Non ingannate me che

Sono la vostra madre Voi siete traditori

Istrioni e bugiardi posseduti da cani

Topi e serpenti Qualcosa abbaia dentro di voi

E squittisce e fischia Lo sento così bene

Oh sono furba io Sono Medea io

Non avete più sangue Adesso tutto è calmo

E sono zittite anche le grida di Colchide

E più niente


GIASONE:

Medea


MEDEA:

Balia chi è questo qui



  • Paesaggio con argonauti


Dovrei parlare di me IO chi

Di chi si parla SE

Si parla di me Io Chi è quello lì

Nella pioggia di guano impellicciato di calce

O che altro Io una bandiera uno

Straccio insanguinato appeso Uno svolazzare

Tra il Nulla e Nessuno sempre che ci sia vento

Io avanzo di un uomo Io avanzo

di una donna luogo comune su luogo comune Io inferno da sogno

Che porta i miei nomi accidentali Io paura

Dei miei nomi accidentali

MIO NONNO ERA UN IDIOTA

DELLA BEOZIA

Io significa viaggio in mare

Io significa conquista di una terra Il mio

Passo attraverso i sobborghi della città Io La mia morte

Nella pioggia di guano impellicciato di calce

L'àncora è l'ultimo cordone ombelicale

Insieme all'orizzonte svanisce la memoria della costa

Gli uccelli sono un addio Sono un rivederci

L'albero abbattuto taglia il serpente e la fiancata della nave

Ara il mare sottile fra Io e non più Io

FIDANZATA DEL MARINAIO

È L'ACQUA DEL MARE

I morti si dice stanno sul fondo

Nuotatori eretti Finché le ossa non riposano

Coito di pesci nella casa vuota del torace

Conchiglie nel cranio

Sete è fuoco

È acqua quel che brucia la pelle

La polpa del dente mastica fame Le labbra sale

Sconcezze pungono la carne solitaria

Finché l'uomo non cerca l'uomo

Il calore di donna è una litania

Le stelle sono freddi segnavia

Il cielo esercita glaciale sorveglianza

Oppure lo sbarco senza gioia Lì in faccia al mare

Mitraglia di schiocchi delle birre aperte

DALLA VITA DI UN UOMO

Ricordo di una battaglia di carri armati

Il mio passo nei sobborghi della città Io

Tra macerie e calcinacci cresce

Il NUOVO Celle per chiavare con teleriscaldamento

Lo schermo sputa mondo nella sala

L'usura è pianificata Il container

serve da cimitero Figure nella discarica

Nate dentro il cemento Parata

Di zombi perforata da spots commerciali

Nelle uniformi della moda di ieri mattina

La gioventù di oggi Fantasmi

Dei morti della guerra di domani

CIO' CHE RESTA PERO' LO SEMINANO LE BOMBE

Nell'accoppiamento sontuoso tra albume e scatole di latta

I bambini schizzano paesaggi con l'immondizia

Una donna è il solito raggio di luce

TRA LE COSCE LA

MORTE PUO' SPERARE

Oppure il sogno jugoslavo

Tra statue rotte nella fuga

Di fronte ad una catastrofe ignota

La madre a rimorchio la vecchia col fagotto appeso al bastone

Corre nella corazza arrugginita IL FUTURO CON

Un gruppo di attori passa a passo cadenzato

NON VI ACCORGETE CHE SONO PERICOLOSI SONO

ATTORI UN CANE VIVE OGNI GAMBA DELLA SEDIA

Fanghiglia di parole che sale dal mio

Abbandonato corpo di Nessuno

Come scegliere dal groviglio

Dei miei sogni che tutt'intorno a me

Cresce silenziosamente e lentamente

Un brandello di Shakespeare

Nel paradiso dei batteri

Il cielo è un guanto che va a caccia

Mascherato con nuvole di ignota architettura

Corre sull'albero morto Le sorelle dei cadaveri

Le mie dita giocano nella fessura

Di notte alla finestra tra città e campagna

Guardavamo il lento morire delle mosche

Così stava Nerone guardando Roma dall'alto con pensieri sublimi

Finché la macchina andò avanti Sabbia nell'ingranaggio

C'era un lupo sulla strada quando andò in pezzi

Viaggio in pullman all'alba a destra e sinistra

Le sorelle fumanti sotto le vesti Il pomeriggio

Spargeva la sua cenere sul mio mantello

Durante il viaggio abbiamo sentito il telone che si strappava

E abbiamo visto le immagini confondersi

I boschi bruciavano IN EASTMAN COLOR

Ma il viaggio era senza arrivo NO PARKING

All'unico incrocio con un occhio solo

Polifemo regolava il traffico

Nostro porto è stato un cinema morto

Sul telone le star marcivano a gara

Alla cassa Fritz Lang strangolava Boris Karloff

Il vento del sud giocava con vecchi cartelloni

OPPURE LO SBARCO SENZA GIOIA I negri morti

come pertiche conficcate nello stagno

Nelle uniforme dei loro nemici

DO YOU REMEMBER DO YOU NO I DONT

Il sangue rappreso

Fuma nel sole

Il teatro della mia morte

Era già aperto quando stavo tra le montagne

Nel gruppo dei compagni di strada morti sulla pietra

E su di me è comparso l'atteso aeroplano

Senza pensarci io sapevo

Che questa macchina era

Quella che le mie nonne chiamavano Dio

Lo spostamento d'aria ha spazzato i cadaveri dall'altopiano

E mentre fuggivo barcollando sentivo un rumore di spari

E sentivo il MIO sangue uscire dalle MIE vene

E il MIO corpo che si trasformava nel paesaggio

Della MIA morte

ALLE SPALLE IL PORCO

Il resto è letteratura Chi ha denti migliori

Il sangue o la pietra


Nota dell'autore al testo


Il testo richiede il naturalismo della scena Riva abbandonata può essere rappresentato durante il programma di un peep-show, Materiale per Medea in riva ad un lago nei pressi di Strausberg , che può essere un piscina fangosa di Beverly Hills o i bagni di una clinica psichiatrica. Come Mauser presuppone una società di trasgressione, in cui un condannato a morte possa trasformare la propria morte reale sulla scena in un'esperienza collettiva, così Paesaggio con Argonauti presuppone le catastrofi che l'umanità sta attualmente preparando. Il paesaggio potrebbe essere o una stella estinta dove una pattuglia di ricerca proveniente da un altro tempo o da un altro spazio ode una voce e trova un morto. Come in ogni paesaggio, in questa parte del testo l'Io è collettivo. La simultaneità delle tre parti del testo può essere illustrata a piacere.