venerdì 15 luglio 2011
mercoledì 13 luglio 2011
Livorno? È come il deserto
da: Il Tirreno - Livorno
Livorno? È come il deserto
«Pontino e San Marco un tesoro ma sogno che la Porta a Terra sparisca»
LIVORNO. Non ha pause l'estate di Theatralia, che in agosto parteciperà alla nuova edizione del Festival Melodrama, di Jelcz-Laskowice, in Polonia, dove sta approntando con le produzioni che andranno in scena nel mese di agosto, fra cui lo spettacolo "Paesaggio con Argonauti" di Heiner Müller (esponente principale della scuola brechtiana), tre scene di grande intensità dai testi misti in prosa e poesia, nelle quali si alternano assurdità e manie, sesso e comicità. Collage postmoderno ispirato dai classici di Euripide e Seneca, frammentato da quotidiana desolazione. Un'allegoria che rappresenta la fine del mondo capitalistico, declamata nelle diverse lingue d'Europa. La piéce è affidata al giovane regista Jonathan Freschi, che si è preparato intensamente sul testo di Müller e anche sulle diverse tesi collegate allo stesso. Origini livornesi da parte di padre (Marco, istruttore sportivo presso la palestra Nuovo Club a Salviano) e pisano- siculo da parte di madre (Alessandra Bitossi, dipendente di una compagnia assicurativa), un fratello (Yari, secondo ufficiale sulle navi passeggere), Freschi studia all'Università di Pisa, facoltà di Lettere e filosofia (gli manca un esame per dare la tesi) e insegna all'Itis Galilei di Livorno. Ma nei suoi progetti il teatro è al primo posto, così come lo è Livorno, una città che ama, pur guardando con occhio critico chi la governa. Quando ha pensato: mi occuperò di spettacolo? «Verso i dodici anni. Prima di allora ero terrorizzato dalla visione dei film di Charles Chaplin. Vedevo, e non so perché, nelle sue storie la morte. Poi invece sono riuscito a guardare Chaplin con altri occhi, rimanendone folgorato. E ho deciso di occuparmi di qualcosa che avesse a che fare con il suo mondo». Qual è stata la sua prima volta in pubblico? «Nello spettacolo "Giullarata Futurista" diretto da Emanuele Gamba nel 1999, con l'Itis Galilei, dove ho studiato informatica e dove ora insegno». Chi l'ha aiutata e chi invece l'ha ostacolata nel percorso legato alla scena? «La mia strada è stata ricca di molti incontri fortunati, che mi hanno aiutato ad andare nella direzione giusta: da Pardo Fornaciari, a Emanuele Gamba, a Pietro Cennamo. A coetanei come Giorgio de Santis, che lavora con me anche nell'ultima produzione di Theatralia "Paesaggio con Argonauti" di Heiner Müller, uno spettacolo non facile che debutterà in agosto al festival polacco Melodrama». Attore, regista, insegnante, studente un po' in ritardo negli esami. Ma qual è il campo in cui si sente di più nella sua pelle? «Oggi il mio interesse è soprattutto orientato verso il mondo teatrale di cui non potrei fare a meno per sentirmi appagato». Attore o regista. Quale ruolo preferisce? «Non fa differenza. Dipende tutto dal tipo di progetto». Sogno nel cassetto? «Mi auguro che non arrivi nella mia vita quello che temo di più: la noia. E spero che il mio futuro sia ricco di situazioni, incontri, viaggi interessanti (quelli che compio lavorando al seguito delle produzioni di Theatralia, per esempio)». Sogni realizzati? «Sicuramente il sogno di potermi dedicare a tempo pieno ai progetti che mi piacciono, senza dover scontare particolari compromessi». La sua famiglia preferiva per lei un altro percorso o la sostiene? «I miei vogliono solo la mia felicità e hanno scelto di investire in ciò che mi appassionava, benché la mia sia una strada poco rassicurante sotto molti aspetti, soprattutto economici». Quando e come è avvenuto l'incontro con Theatralia? «Ho conosciuto Pietro Cennamo, il suo ideatore e presidente, durante un bellissimo corso intensivo di formazione attoriale di sei mesi, diretto proprio da lui. Un'esperienza interessante che mi ha messo in contatto con insegnanti di discipline attoriali. Mi sono occupato poi, sempre con Cennamo, della messa in scena di Meinhof, Ulrike Es 154/76, rappresentata in anteprima a Berlino e ho seguito altri suoi lavori, come assistente, dando anche una mano all'organizzazione della scorsa edizione della rassegna polacca "Melodrama": la nostra è una collaborazione vincente, che spero duri nel tempo». Parliamo di miti. Quali sono i suoi? «Charlie Chaplin prima di tutto. Poi Carmelo Bene, Edward Gordon Craig, Eimuntas Nekrösius, Bob Wilson, Philip Glass. Lo scrittore Michelangelo La Neve, i cantanti Giovanni Lindo Ferreti e Blixa Bargeld». Testi teatrali preferiti? «"Prometeo Incatenato" di Eschilo e "Macbeth" di Shakespeare». Se potesse decidere con quale regista vorrebbe stare sulle scene? «In questo momento con Eimuntas Nekröius e, anche se appartengono a un mondo diverso, con il gruppo toscano denominato "Gli Omini" molto bravi e fantasiosi». Come regista invece chi vorrebbe dirigere? «Visto che si sta parlando di sogni...sogno a 360º e dico che mi sarebbe piaciuto lavorare con Gian Maria Volontè, magari in un'opera di Bertolt Brecht». Per il suo lavoro è andato e tornato, senza però lasciare Livorno definitivamente. Scelta o obbligo? «Metà e metà. Da una parte non ho mai avuto una reale occasione per trasferirmi altrove, dall'altra le esperienze lavorative che ho fatto nelle grandi città non mi hanno entusiasmato particolarmente e ho dovuto riconoscere che a Livorno, nonostante la situazione imbarazzante che sta vivendo il mondo della cultura, a causa di una classe politica assolutamente inadeguata, si lavora bene ai propri progetti». Se dovesse paragonare la sua città a un soggetto teatrale quale sceglierebbe? «Il paesaggio deserto, distrutto e devastato da una catastrofe atomica raccontato da Muller in "Paesaggio con Argonauti", il testo a cui sto lavorando ora: calza a pennello sul modo in cui vedo Livorno in questi ultimi anni». Pregi e difetti della livornesità? «Amo la tolleranza e lo storico rispetto di alcuni cittadini verso le altre culture, mentre penso che il più grande difetto di questa città si rispecchi nella sua classe politica. Un monolito inamovibile che sta distruggendo quel poco che è rimasto delle nostre tradizioni». Lasciamo stare la politica e parliamo di bellezze del territorio. Quale angolo di Livorno ama di più? «Il Pontino e piazza San Marco». E quale invece toglierebbe dalla carta topografica? «Quel luogo indecente, anche per la vista, chiamato Porta a Terra». Ha ancora degli amici d'infanzia o li ha persi strada facendo? «Le mie amicizie sono durature nel tempo e molte delle persone che frequento (alcune delle quali lavorano con me) le ho conosciute proprio fra l'infanzia o l'adolescenza». Qual è il ricordo più tenero che le viene alla mente se ripensa a lei bambino? «Il giorno che i miei genitori mi regalarono due gattini: una è sempre viva, si chiama Luna, ha 21 anni e mezzo e abita con me». Il suo primo dolore? «La caduta del muro di Berlino e la fine del mondo sovietico». Una gioia indimenticabile? «La scoperta della sessualità». Il suo pregio? «Forse quello di scacciare le certezze come la peste e venerare il dubbio...Anche se i pregi di un individuo dovrebbero elencarli gli altri...». Il suo difetto? «Ne ho molti, uno su tutti che mi rimprovero da sempre, è il fatto di non intervenire abbastanza attivamente nella realtà in cui vivo...Poi sono pigro, scostante e con un bel caratterino...». Cosa farà da grande? «Non lo so, forse il sindaco della mia città...Oppure, con la testa che mi ritrovo, tra un mese potrei essere a vendere cammelli nel deserto!».
Promo del "Calderón" di Pier Paolo Pasolini
Calderón va in scena con il seguente cast: Annalisa Arcai, Marco Bruciati, Irene Catuogno, Jonathan Freschi, Dario Gentili, Silvia Lemmi, Anna Lisa Matarazzo. Costumi Patrizia Tonello e Giordana Vassena, luci e video Alessandro Ferri, suoni Giorgio De Santis, regia Emanuele Gamba.
Pasolini scrive Calderòn nell'anno 1967 ed è lui stesso a recensirlo in occasione della prima rappresentazione, avvenuta al Teatro Metastasio di Prato nel 1978 per la regia di Luca Ronconi.
Pasolini si richiama al grande tragediografo spagnolo del "Siglo de Oro" Pedro Calderón de la Barca (1600-1681) e alla Vida es sueño, considerato il suo capolavoro: come in Calderón i personaggi si chiamano Basilio, Sigismondo, Rosaura, ma la trama è diversa.
Il dramma è ambientato in Spagna, ma nella Spagna franchista del 1967, e si sviluppa, rispetto alla trama, in tre sogni successivi, in tre ambienti: aristocratico, proletario, medioborghese.
Calderòn è soprattutto una parabola sull'impossibilità di evadere dalla propria condizione sociale, una condizione che imprigiona l'uomo in una serie di convenzioni che ne condizionano l'agire ed il pensiero.
La soluzione che adotta Rosaura per cercare un' ipotetica libertà è appunto il sogno, nel quale si rifugia e tramite il quale adotta tre diverse identità: prima la figlia di estrazione aristocratica, poi la prostituta ed infine la moglie borghese piena di frustrazioni.
Il tema della diversità è dunque ricorrente in tutti i sogni, alla luce di un amore diverso e quindi immorale: la passione per il padre, per il proprio figlio o nella proiezione di un figlio (nell'ultimo sogno lo studente Enrique).
In tutti e tre i suoi risvegli, Rosaura si trova in una dimensione occupata interamente dal senso del Potere. Il Potere in Calderón si chiama Basilio ed ha connotati cangianti e mutevoli: è padre e re nel primo quadro, pappone filosofo nel secondo, marito piccolo borghese nell'ultimo. Prima dell'epilogo.
Rosaura, attraverso il sogno, tenta di infrangere e sottrarsi al clima soffocante in cui vive; ma la sua diversità, il suo essere donna, madre, figlia, e il suo puerile tentativo di fuga non porterà a nulla, perché il potere la spingerà "a obbedire senza essere obbediente".
"Solo le persone sane e senza dolore possono vivere rivolte verso il futuro! Le altre - malate e piene di dolore - sono lì, a mezza strada, senza certezze, senza convinzioni e magari tuttora, almeno in parte, vittime del conformismo e dei dogmi di una storia ancora più vecchia, contro cui hanno tanto combattuto: e, se poi partecipano alle nuove lotte, lo fanno senza fiducia, senza ottimismo, e con le bandiere che penzolano come stracci. Così, almeno, in questa nottata del 1967".
venerdì 26 novembre 2010
Alberto Moravia - Non sanno parlare
Noialtri, benché io sia, come ho detto, bottigliaro e stracciarolo, siamo invece una famiglia civile: mia moglie è una brunetta pulita e in ordine, la mia bambina si lava e si pettina, ci ha i fiocchetti alle treccine e i vestitini di bucato, e la nostra casetta, per quanto abusiva, è uno specchio. E poi noi parliamo, vi sembrerà strano che lo dica con orgoglio, ma tra il Surunto, la sua famiglia e noialtri c'era soprattutto questa differenza: noi parlavamo e loro no. Noi dicevamo: - Ho fame, ho sonno, dammi la padella, sta' zitta, buongiorno e buonasera -; loro invece non parlavano veramente ma si esprimevano con certi versi e certi borbottii che sembravano proprio quelli degli animali. Sarà stato dialetto, non discuto, ma era un dialetto strano che rassomigliava tale e quale ai versi delle bestie che, loro, poverette, si fanno capire appunto con i versi e non con le parole. Tanto che glielo dissi al Surunto, il giorno che facemmo il patto: - Intendiamoci: niente uso di gabinetto e di cucina, perché voi siete bestie, e vi conosco e fate presto a ridurre il gabinetto una fogna e la cucina una pattumiera. Ottomila lire per la sola abitazione, siamo intesi? - Lui mi ascoltava con tutta la fronte aggrottata dal grande sforzo che faceva per capirmi e poi disse: - Non siamo bestie, siamo cristiani -; ma lo disse, appunto, con un borbottio cupo e incomprensibile per cui io esclamai, trionfante: - Ecco la prova. Che ti credi di aver detto? Non hai detto proprio niente, hai fatto un verso, come un animale e bravo chi ti capisce. Perciò tu prima impara a parlare e poi torna qui e dimmelo con parole chiare e io ti do il gabinetto e la cucina. Se no, no. -
Subito mi accorsi dell'errore che avevo commesso prendendo questo Surunto; ma ormai era troppo tardi. Le ottomila lire, è vero, lui le pagava perché era onesto; ma tanti erano gli inconvenienti della vicinanza che, secondo me, anche a ottantamila lire ci avrei rimesso. Intanto il sudiciume delle bambine che, stando così appiccicate le due baracche, non si potevano evitare. Le tre bambine che avevano le teste come tre nibbi, giocavano, si capisce, con la mia. Risultato: una mattina, tornando a casa, udii un pianto disperato. Era la mia Rosetta a cui mia moglie, seduta sulla soglia, teneva la testa piegata su un catino per liberarla dai tanti e tanti insetti che le sue tre amiche le avevano regalato. Il Surunto non c'era e io me la presi con la moglie e lei mi venne sotto, con le mani al viso, gridando, al solito, con quel loro borbottio inarticolato per cui alla fine io le dissi: - Ma sta' zitta, tanto non ti capisco. Pensa piuttosto a pettinare le tue bambine. La sai la canzone: ci hai il riccioletto fatto a molla; dentro il pidocchietto ti ci balla; e la cimice ci fa la tarantella. - Ma sì, altro che canzone. Quando non erano le bambine, era la madre, proprio lei, che veniva in casa e dove metteva le mani o i piedi, sporcava; e sempre chiedeva qualche cosa in prestito, ora la padella, ora una forchetta, ora un bicchiere; e quando restituiva l'oggetto, non c'era poi sapone o cenere o acido che bastasse a ripulirlo. Insomma era un pianto continuo; tanto che lo dissi a mia moglie: - Abbiamo fatto un cattivo affare. Adesso tutto sta a resistere alla compassione. Se ci lasciamo andare, siamo perduti. -
Resistere alla compassione: sono cose che si dicono. Venne l'inverno e le disgrazie cominciarono a fioccare fitte fitte sulla testa di Michele. Per prima cosa, per il gran freddo e per la pioggia, sospesero i lavori nel cantiere in cui lui faticava da manovale, così che rimase disoccupato; qualche giorno dopo gli si ammalò la bambina più grande, Leonilde. Mia moglie che è buona buona buona, e tre volte buono vuole dire minchione, andò a visitarli e dopo un poco tornò indietro dicendo che lei non ci resisteva e se non ci credevo, ci andassi anch'io e vedessi tutto quanto con i miei occhi. Vincendo la ripugnanza, entrai, dunque, nella baracca del Surunto, la prima volta da quando gliel'avevo affittata. Dico la verità, ne ho viste di baracche e casette abusive, ma zozza come quella, mai. Siccome cucinavano con una latta di benzina per fornello e facevano il fuoco in terra, le pareti che gli avevo date imbiancate, ormai erano annerite come la bocca di un forno. Tra queste quattro pareti affumicate, in penombra, vidi di tutto un po': fango e acqua in terra; cocci, scarpacce rotte, stracci, scatole vecchie di conserva; due seggiole di paglia sfondate; parecchie cassette da imballaggio; e nel mezzo, un tavolo scuro sul quale stava posata una scodella piena di pasta asciutta fredda del giorno prima. Mi fece impressione questa scodella: sembrava quella in cui mangiano i cani.
Nell'angolo più buio ci stava il letto matrimoniale, di ferro nero, e io aguzzando gli occhi ci intravvidi un involto di stracci e due occhi che brillavano: la bambina malata. Snervato da tanto sudiciume e dal cattivo odore che c'era nella stanza, mi accostai e le misi una mano sulla fronte: scottava. Dissi allora alla madre e al Surunto che mi stavano dietro: - Ma questa bambina che mangia? Che ha mangiato? - La moglie, al solito, con quella sua parlantina cupa e incomprensibile, mi disse qualche cosa che non capii e io gridai esasperato: - Ma possibile che in tanto tempo che siete a Roma, non abbiate ancora imparato a parlare da cristiani? Beh, adesso io ci ho da fare. Mia moglie vi darà qualche cosa da mangiare per la bambina. Ma intanto perché non fate un po' di pulizia?- Altre frasi incomprensibili. Alzai le spalle e uscii dalla baracca.
Quel giorno mia moglie cucinò in casa non soltanto per la bambina malata ma anche per tutta la famiglia e tanto fece che ottenne da quella donna selvaggia che almeno ripulisse un poco la baracca dalle tante porcherie che ci stavano ammucchiate. La sera la bambina stava un po' meglio; e dopo cena ci ritirammo, ciascuno in casa propria. Ma poco prima di mezzanotte incominciò a piovere o meglio cominciò a cascare giù l'acqua come da una botte sfondata; e noi due, a letto, al buio, ascoltavamo quest'acqua che veniva giù a torrenti, spietata, e tutti e due pensavamo la stessa cosa e alla fine mia moglie disse: - Certo quei poveretti qua accanto mi fanno pietà. Non ci hanno niente, non ci hanno lenzuola, coperte, cuscini, non ci hanno piatti, pentole, bicchieri, non ci hanno scarpe, vestiti, sono nudi e crudi, zingarelli. E tu non gli vuoi dare l'uso di cucina e di gabinetto. E per giunta gli fai pagare ottomila lire, che di questi tempi è una bella somma. - Io le risposi: - Lo so che sono nudi e crudi, zingarelli. Ma questa baracca per me è il primo gradino. Se ci metto sopra ben bene il piede, poi posso salire più su. Queste ottomila lire sono la leva con cui posso scalzare la miseria. Non lo capisci questo? Loro stanno sotto di noi e noi gli mettiamo un piede sulla schiena per salire un po' più su. E quanto al gabinetto e alla cucina, a loro che gli serve? Sono bestie e se gli dessi l'uso di cucina e di gabinetto, loro ridurrebbero tutti e due come la casa loro che l'hai vista e lo sai che roba è.
Ma lei insistette: - Così, però, mi tocca cucinare per loro perché non ci ho core di vederli mangiar freddo o cuocere sulla latta di benzina. E quanto al gabinetto, lo sai perché la bambina si è beccato quel febbrone? Perché ha dovuto uscire di notte sotto la pioggia e andare per la campagna a fare i suoi bisogni -. Allora ta-gliai corto: - Che ti credi che abbiano fatto quelli che hanno i quattrini e girano con l'automobile? Hanno messo anche loro il piede su un primo gradino. Lo so che sono uno sfruttatore, ma lo sono per amore della famiglia e a questo mondo chi non sfrutta finisce per essere sfruttato. - Insomma, discutevamo al buio, men-tre continuava quel diluvio, quando, ecco, picchiano alla porta. Mi alzo, vado ad aprire e vedo Michele. Sembrava un'apparizione, tutto gocciolante, col cappelletto nero aggrondato sugli occhi, fradicio da far pensare che avesse fatto allora allora un tuffo nel Tevere. Gli domando quel che volesse e lui risponde con il solito borbottio cupo qualche cosa che non capisco. Allora io, spazientito, l'acchiappo per il bavero e lo scuoto come un pupazzo gridando: - Ma parla da cristiano, parla, che io non ti capisco un accidenti. - Lui non si muove, ripete il borbottio. Finalmente, un grido di mia moglie che era rimasta a letto: -Giovacchino, dice che gli piove dentro la baracca.
Breve, mi rivestii e uscii con Michele. Pioveva a torrenti nella notte nera e c'era anche il vento, di tramontana, che ora spingeva l'ondata della pioggia per un verso e ora per un altro. Entrammo nella baracca, al buio, e tosto sentii l'acqua scivolarmi tra il collo e il bavero, gelata, giù per la schiena. Pioveva tra due foglie di bandone che non si sa come, forse per via del vento, si erano spostate; e non pioveva a gocce, pioveva proprio forte come se fossimo stati all'aperto. Dissi imbestialito: - Ma accendi un lume. - Il Surunto mi rispose dal buio una frase smozzicata che non capii, forse voleva dire che non ce l'aveva il lume, e io allora fregai un fiammifero e alla luce della fiammella vidi l'acqua in terra e il fango e i bacherozzi e vidi che pioveva anche sul fondo del letto, per cui la madre e le tre bambine si erano ritirate tutte insieme in su, verso il capezzale, formando un grande mucchio come di biancheria sporca. Insomma non si potevano fare che due cose: o prendere il Surunto e la famiglia in casa nostra per quella notte; oppure riparare il tetto. Preferii fare la seconda; e così passai un'ora a camminare in su e in giù dalla baracca mia alla sua e poi, sempre sotto la pioggia che veniva giù a secchiate, salii sul tetto e aggiunsi due foglie di bandone e ci misi sopra tre o quattro pietre per farle star ferme.
Ci credereste? Dopo, ci misi quasi due ore a riprender sonno, un po' per il gran freddo, che non facevo che tremare, un po' per il nervoso, perché pensavo che Surunto, la moglie e le bambine mi facevano compassione e al tempo stesso non volevo che mi facessero compassione e poi mi arrabbiavo di non volere e alla fine non capivo più se mi facessero compassione o non me la facessero. Mia moglie, che mi sentiva inquieto, disse alla fine: - Ma perché non dormi? Loro, qua accanto, con tutti i guai che ci hanno, dormono e tu che stai tanto meglio di loro, non dormi? - Tesi l'orecchio e, infatti, attraverso la parete sottile, udii il russare che faceva il Surunto, proprio di gusto; e questo russare in certo modo mi rassicurò e mi calmò e finalmente mi addormentai.
Il mattino dopo non pioveva più; e proprio sul momento che stavo andando via con il carrettino, ecco, si presenta il Surunto. Ritto sulla soglia, il cappelletto sugli occhi, disse, al solito, qualche cosa che non capii. Ma questa volta non volli perdere tempo e gli dissi: - Vuoi dirmi che sei disoccupato e che non ci hai soldi e che, insomma, non puoi pagarmi la mesata. Non è così? - Lui sgranò gli occhi e accennò di sì. Allora io, snervato, gli gridai: - Senti, te l'abbuono la mesata. E mi pagherai quando potrai. Per ora ci starai gratis nella baracca, gratis, hai capito? - Lui accennò ancora di sì, e poi borbottò qualche cosa, come per dire: - Ti ringrazio, Dio te ne renda merito. - E io allora, furibondo, gli gridai ancora: - E se volete cucinare, venite pure qui, vi do l'uso di cucina. Hai capito? - Lui accennò di sì per la terza volta e poi se ne andò. Mia moglie approvò il gesto, ma disse: -Visto che hai fatto trenta, potevi fare trentuno, e dargli anche il gabinetto. - Io risposi: - Glielo darò uno di questi giorni, ma non posso darglielo subito, voglio abituarmi all'idea. Sono bestie, non sanno neppure parlare, non lo vedi che non sanno parlare? - E lei: - Bisogna aver pazienza con loro, saranno bestie ma sono anche cristiani. - E io: - Sì, ma intanto il primo gradino, così, invece di salirlo, l'abbiamo sceso. E se continuiamo in questo modo, quando saliremo?
(Alberto Moravia, Non sanno parlare, in Nuovi racconti romani, Milano, Bompiani, 1974)
martedì 5 ottobre 2010
Riva abbandonata Materiale per Medea Paesaggio con Argonauti
See bei Straußberg Verkommenes Ufer Spur
Flachstirniger Argonauten
Schilfborsten Totes Geäst
DIESER BAUM WIRD MICH NICHT ÜBER-
WACHSEN Fischleichen n Glänzen im Schlamm Keksschachteln Kothaufen
FROMMS ACT CASINO
Die zerrissenen Monatsbinden Das Blut
Der Weiber von Kolchis
ABER DU MUSST AUFPASSEN JA
JA JA JA JA
SCHLAMMFOTZE SAG ICH ZU IHR DAS IST
MEIN MANN
STOSS MICH KOMM SÜSSER
Bis ihm die Argo den Schädel zertrümmert das nicht
mehr gebrauchte
Schiff
Das im Baum hängt Hangar und Kotplatz der Geier
im Wartestand
Sie hocken in den Zügen Gesichter aus Tagblatt und
Speichel
Starrn jeder in der Hose ein nacktes Glied auf gelacktes
Fleisch Rinnstein der drei Wochenlöhne kostet Bis der
Lack
Aufplatzt Ihre Weiber stellen das Essen warm hängen
die Betten in die Fenster bürsten
Das Erbrochene aus dem Sonntagsanzug Abflußrohre
Kinder ausstoßend in Schüben gegen den Anmarsch der
Würmer
Schnaps ist billig
Die Kinder pissen in die leeren Flaschen
Traum von einem ungeheuren
Beischlaf in Chicago
Blutbeschmierte Weiber
In den Leichenhallen
Die Toten starren nicht ins Fenster
Sie trommeln nicht auf dem Abort
Das sind sie Erde von den Überlebenden beschissen
EINIGE HINGEN AN LICHTMASTEN ZUNGE
HERAUS
VOR DEM BAUCH DAS SCHILD ICH BIN EIN
FEIGLING
Auf dem Grund aber Medea den zerstückten
Bruder im Arm Die Kennerin
Der Gifte
MEDEAMATERIAL LANDSCHAFT MIT ARGONAUTEN
MEDEA
Jason Mein Erstes und mein Letztes Amme
Wo ist mein Mann
AMME
Bei Kreons Tochter Frau
MEDEA
Bei Kreon sagtest du
AMME
Bei Kreons Tochter
MEDEA
Hast du gesagt bei Kreons Tochter Ja
Warum bei Kreons Tochter nicht die Macht hat
Wohl über Kreon ihren Vater der
Uns geben kann das Wohnrecht in Korinth
Oder austreiben in ein andres Ausland
Gerade jetzt vielleicht umfaßt er Jason
Mit Bitten ihre faltenlosen Knie
Für mich und seine Söhne die er liebt
Weinst oder lachst du Amme
AMME
Herrin ich
Bin älter als mein Weinen oder Lachen
MEDEA
Wie lebst du in den Trümmern deines Leibs
Mit den Gespenstern deiner Jugend Amme
Bring einen Spiegel Das ist nicht Medea
Jason
JASON
Weib was für eine Stimme
MEDEA
Ich
Bin nicht erwünscht hier Daß ein Tod mich wegnähm
Dreimal fünf Nächte Jason hast du nicht
Verlangt nach mir Mit deiner Stimme nicht
Und nicht mit eines Sklaven Stimme noch
Mit Händen oder Blick
JASON
Was willst du
MEDEA
Sterben
JASON
Das hört ich oft
MEDEA
Bedeutet dieser Leib
Dir nichts mehr Willst du mein Blut trinken Jason
JASON
Wann hört das auf
MEDEA
Wann hat es angefangen Jason
JASON
Was warst du vor mir Weib
MEDEA
Medea
Du bist mir einen Bruder schuldig Jason
JASON
Zwei Söhne gab ich dir für einen Bruder
MEDEA
Du Mir Liebst du sie Jason deine Söhne
Willst du sie wiederhaben deine Söhne
Dein sind sie Was kann mein sein deiner Sklavin
Alles an mir dein Werkzeug alles aus mir
Für dich hab ich getötet und geboren
Ich deine Hündin deine Hure ich
Ich Sprosse auf der Leiter deines Ruhms
Gesalbt mit deinem Kot Blut deiner Feinde
Und wenn du zum Gedächtnis deines Siegs
Über mein Land und Volk der mein Verrat war
Aus ihren Eingeweiden einen Kranz
Um deine Schläfe flechten willst dein sind sie
Mein Eigentum die Bilder der Erschlagnen
Die Schreie der Geschundnen mein Besitz
Seit ich aus Kolchis auszog meiner Heimat
Auf deiner Blutspur Blut aus meinesgleichen
In meine neue Heimat den Verrat
Blind für die Bilder für die Schreie taub
War ich bis du das Netz zerrissen hast
Gestrickt aus meiner und aus deiner Lust
Das unsre Wohnung war mein Ausland jetzt
In seinen Maschen steh ich ausgerenkt
Die Asche deiner Küsse auf den Lippen
Zwischen den Zähnen den Sand unsrer Jahre
Auf meiner Haut nur meinen eignen Schweiß
Dein Atem ein Gestank aus fremdem Bett
Ein Mann gibt seiner Frau den Tod zum Abschied
Mein Tod hat keinen andern Leib als deinen
Bist du mein Mann bin ich noch deine Frau
Könnt ich sie aus dir beißen deine Hure
An die du mich verraten hast und meinen
Verrat der deine Lust war Dank für deinen
Verrat der mir die Augen wiedergibt
Zu sehen was ich sah die Bilder Jason
Die mit den Stiefeln deiner Mannschaft du
Gemalt hast auf mein Kolchis Ohren wieder
Zu hören die Musik die du gespielt hast
Mit Händen deiner Mannschaft und mit meinen
Die deine Hündin war und deine Hure
Auf Leibern Knochen Gräbern meines Volks
Und meinen Bruder Meinen Bruder Jason
Den ich deinen Verfolgern in den Weg warf
Zerstückt von diesen meinen Schwesterhänden
Für deine Flucht vor dem beraubten Vater
Meinem und seinem Liebst du deine Söhne
Willst du sie wieder haben deine Söhne
Du bist mir einen Bruder schuldig Jason
Wen liebt ihr mehr Den Hund oder die Hündin
Wenn ihr dem Vater schöne Augen macht
Und seiner neuen Hündin und dem König
Der Hunde in Korinth hier ihrem Vater
Vielleicht ist euer Platz an seinem Trog
Nimm Jason was du mir gegeben hast
Die Früchte des Verrats aus deinem Samen
Und stopf es deiner Hure in den Schoß
Mein Brautgeschenk für dein und ihre Hochzeit
Geht mit dem Vater der euch liebt Und so
Daß er die Mutter wegtritt die Barbarin
Weil euren Weg nach oben sie beschwert
Wollt ihr nicht sitzen an der hohen Tafel
Ich war die Milchkuh eure Fußbank jetzt
Wollt ihr Seh ich nicht eure Augen glänzen
Im Vorschein auf das Glück der satten Bäuche
Was klammert ihr euch noch an die Barbarin
Die eure Mutter ist und euer Makel
Schauspieler seid ihr Kinder des Verrats
Schlagt eure Zähne in mein Herz und geht
Mit eurem Vater ders getan hat vor euch
Laß mir die Kinder Jason einen Tag noch
Dann will ich gehn in meine eigne Wüste
Du bist mir einen Bruder schuldig Jason
Nicht lange kann ich hassen was du liebst
Die Liebe kommt und geht Nicht weise war ich
Das zu vergessen Zwischen uns kein Groll
Mein Brautkleid nimm als Brautgeschenk für deine
Schwer geht das Wort mir von den Lippen Braut
Die deinen Leib umfangen wird weinen
An deiner Schulter manchmal stöhnen im Rausch
Das Kleid der Liebe meiner andern Haut
Gestickt mit Händen der Beraubten aus
Dem Gold von Kolchis und gefärbt mit Blut
Vom Hochzeitsmahl aus Vätern Brüdern Söhnen
Soll deine neue Liebe kleiden wie
In meine Haut Dir nah sein werd ich so
Nah deiner Liebe ganz entfernt von mir
Nun geh in deine neue Hochzeit Jason
Ich will die Braut zur Hochzeitsfackel machen
Seht eure Mutter gibt euch jetzt ein Schauspiel
Wollt ihr sie brennen sehn die neue Braut
Das Brautkleid der Barbarin ist begabt
Mit fremder Haut sich tödlich zu verbinden
Wunden und Narben geben gutes Gift
Und Feuer speit die Asche die mein Herz war
Die Braut ist jung wie Glatt spannt sich das Fell
Vom Alter nicht von keiner Brut verwüstet
Auf ihren Leib jetzt schreibe ich mein Schauspiel
Ich will euch lachen hören wenn sie schreit
Vor Mitternacht wird sie in Flammen stehn
Geht meine Sonne auf über Korinth
Ich will euch lachen sehn wenn die mir aufgeht
Mit meinen Kindern teilen meine Freude
Jetzt tritt der Bräutigam ins Brautgemach
Jetzt legt er seiner jungen Braut zu Füßen
Das Brautkleid der Barbarin das Brautgeschenk
Getränkt mit meinem Schweiß der Unterwerfung
Jetzt spreizt sie sich die Hure vor dem Spiegel
Jetzt schließt das Gold von Kolchis ihr die Poren
Pflanzt einen Wald von Messern ihr ins Fleisch
Das Brautkleid der Barbarin feiert Hochzeit
mit deiner Jason jungfräulichen Braut
Die erste Nacht ist mein Es ist die letzte
Jetzt schreit sie Habt ihr Ohren für den Schrei
So schrie als ihr in meinem Leib lagt Kolchis
Und schreit noch Habt ihr Ohren für den Schrei
Sie brennt Lacht ihr Ich will euch lachen sehn
Mein Schauspiel ist eine Komödie Lacht ihr
Wie Tränen für die Braut Ah meine kleinen
Verräter Nicht für nichts habt ihr geweint
Aus meinem Herzen schneiden will ich euch
Mein Herzfleisch Mein Gedächtnis Meine Lieben
Gebt mir mein Blut zurück aus euren Adern
In meinen Leib zurück euch Eingeweide
Heute ist Zahltag Jason Heute treibt
Deine Medea ihre Schulden ein
Könnt ihr jetzt lachen Der Tod ist ein Geschenk
Aus meinen Händen sollt ihr das empfangen
Ganz abgebrochen hinter mir hab ich
Was Heimat hieß jetzt hinter uns mein Ausland
Daß es nicht Heimat wird euch mir zum Hohn
Mit diesen meinen Menschenhänden Ach
Wär ich das Tier geblieben das Ich war
Eh mich ein Mann zu seiner Frau gemacht hat
Medea Die Barbarin Jetzt verschmäht
Mit diesen meinen Händen der Barbarin
Händen zerlaugt zerstickt zerschunden vielmal
Will ich die Menschheit in zwei Stücke brechen
Und wohnen in der leeren Mitte Ich
Kein Weib kein Mann Was schreit ihr Schlimmer als
Tod
Ist alt sein Küssen würdet ihr die Hand
Die euch den Tod schenkt kenntet ihr das Leben
Das war Korinth Wer seid ihr Wer hat euch
Gekleidet in die Leiber meiner Kinder
In euren Augen welches Tier versteckt sich
Stellt ihr euch tot Die Mutter täuscht ihr nicht
Schauspieler seid ihr Lügner und Verräter
Bewohnt von Hunden Ratten Schlangen seid ihr
Das bellt und pfeift und zischt Ich hör es gut
O ich bin klug ich bin Medea Ich
Habt ihr kein Blut mehr Jetzt ist alles still
Die Schreie von Kolchis auch verstummt Und nichts
mehr
JASON
Medea
MEDEA
Amme Kennst du diesen Mann
LANDSCHAFT MIT ARGONAUTEN
Soll ich von mir reden Ich wer
Von wem ist die Rede wenn
Von mir die Rede geht Ich Wer ist das
Im Regen aus Vogelkot Im Kalkfell
Oder anders Ich eine Fahne ein
Blutiger Fetzen ausgehängt Ein Flattern
Zwischen Nichts und Niemand Wind vorausgesetzt
Ich Auswurf eines Mannes Ich Auswurf
Einer Frau Gemeinplatz auf Gemeinplatz Ich Traumhölle
Die meinen Zufallsnamen trägt Ich Angst
Vor meinem Zufallsnamen
MEIN GROSSVATER WAR
IDIOT IN BÖOTIEN
Ich meine Seefahrt
Ich meine Landnahme Mein
Gang durch die Vorstadt Ich Mein Tod
Im Regen aus Vogelkot Im Kalkfell
Der Anker ist die letzte Nabelschnur
Mit dem Horizont vergeht das Gedächtnis der Küste
Vögel sind ein Abschied Sind ein Wiedersehn
Der geschlachtete Baum pflügt die Schlange das Meer
Dünn zwischen Ich und NichtmehrIch die Schiffswand
SEEMANNSBRAUT IST DIE SEE
Die Toten sagt man stehen auf dem Grund
Aufrechte Schwimmer Bis die Knochen ruhn
Paarung der Fische im ausgeweideten Brustkorb
Muscheln am Schädeldach
Durst ist Feuer
Wasser heißt was auf der Haut brennt
Hunger kaut das Zahnfleisch Salz die Lippen
Zoten stacheln das einsame Fleisch
Bis der Mann nach dem Mann greift
Frauenwärme ist ein Singsang
Die Sterne sind kalte Wegweiser
Der Himmel übt eisige Aufsicht
Oder die glücklose Landung Gegen das Meer zischt
Der Knall der Bierdosen
AUS DEM LEBEN EINES MANNES
Erinnerung an eine Panzerschlacht
Mein Gang durch die Vorstadt Ich
Zwischen Trümmern und Bauschutt wächst
DAS NEUE Fickzellen mit Fernheizung
Der Bildschirm speit Welt in die Stube
Verschleiß ist eingeplant Als Friedhof
Dient der Container Gestalten im Abraum
Eingeborene des Betons Parade
Der Zombies perforiert von Werbespots
In den Uniformen der Mode von gestern vormittag
Die Jugend von heute Gespenster
Der Toten des Krieges der morgen stattfinden wird
WAS BLEIBT ABER STIFTEN DIE BOMBEN
In der prachtvollen Paarung von Eiweiß und Dosenblech
Die Kinder entwerfen Landschaften aus Müll
Eine Frau ist der gewohnte Lichtblick
ZWISCHEN DEN SCHENKELN HAT
DER TOD EINE HOFFNUNG
Oder der Jugoslawische Traum
Zwischen zerbrochnen Statuen auf der Flucht
Vor einer unbekannten Katastrophe
Die Mutter im Schlepptau die Alte mit dem Tragholz
Im rostigen Harnisch läuft DIE ZUKUNFT mit
Ein Rudel Schauspieler passiert im Gleichschritt
MERKT IHR NICHT DASS SIE GEFÄHRLICH
SIND ES SIND
SCHAUSPIELER JEDES STUHLBEIN LEBT EIN
HUND
Wortschlamm aus meinem
Verlassenen Niemandsleib
Wie herausfinden aus dem Gestrüpp
Meiner Träume das um mich herum
Ohne Laut langsam zuwächst
Ein Fetzen Shakespeare
Im Paradies der Bakterien
Der Himmel ist ein Handschuh auf der Jagd
Maskiert mit Wolken unbekannter Bauart
Rast auf dem toten Baum Die Leichenschwestern
Meine Finger spielen in der Scheide
Nachts im Fenster zwischen Stadt und Landschaft
Sahn wir dem langsamen Sterben der Fliegen zu
So stand Nero über Rom im Hochgefühl
Bis der Wagen vorfuhr Sand im Getriebe
Ein Wolf stand auf der Straße als er auseinanderbrach
Busfahrt im Morgengrauen Rechts und links
Die Schwestern dampfend unter dem Kleid Der Mittag
Stäubte ihre Asche auf mein Fell
Während der Fahrt hörten wir die Leinwand reißen
Und sahn die Bilder ineinander stürzen
Die Wälder brannten in EASTMAN COLOR
Aber die Reise war ohne Ankunft NO PARKING
An der einzigen Kreuzung mit einem Auge
Regelte Polyphem den Verkehr
Unser Hafen war ein totes Kino
Auf der Leinwand verfaulten die Stars in Konkurrenz
Im Kassenraum würgte Fritz Lang Boris Karloff
Der Südwind spielte mit alten Plakaten
ODER DIE GLÜCKLOSE LANDUNG Die toten
Neger
Wie Pfähle in den Sumpf gerammt
In den Uniformen ihrer Feinde
DO YOU REMEMBER DO YOU NO I DONT
Das getrocknete Blut
Qualmt in der Sonne
Das Theater meines Todes
War eröffnet als ich zwischen den Bergen stand
Im Kreis der toten Gefährten auf dem Stein
Und über mir erschien das erwartete Flugzeug
Ohne Gedanken wußte ich
Diese Maschine war
Was meine Großmütter Gott genannt hatten
Der Luftdruck fegte die Leichen vom Plateau
Und Schüsse knallten in meine torkelnde Flucht
Ich spürte MEIN Blut aus MEINEN Adern treten
Und MEINEN Leib verwandeln in die Landschaft
MEINES Todes
IN DEN RÜCKEN DAS SCHWEIN
Der Rest ist Lyrik Wer hat bessre Zähne
Das Blut oder der Stein
Der Text braucht den Naturalismus der Szene. VERKOMMENES UFER kann bei laufendem Betrieb in einer Peepshow gezeigt werden, MEDEAMATERlAL an einem See bei Straußberg, der ein verschlammter Swimmingpool in Beverly Hills oder die Badeanstalt einer Nervenklinik ist. Wie MAUSER eine Gesellschafi der Grenzüberschreitung, in der ein zum Tod Verurteilter seinen wirklichen Tod auf der Bühne zur kollektiven Erfahrung machen kann, setzt LANDSCHAFT MIT ARGONAUTEN die Katastrophen voraus, an denen die Menschheit arbeitet. Die Landschaft mag ein toter Stern sein, auf dem ein Suchtrupp aus einer andern Zeit oder aus einem andern Raum eine Stimme hört und einen Toten findet. Wie in jeder Landschaft ist das Ich in diesem Textteil kollektiv. Die Gleichzeitigkeit der drei Textteile kann beliebig dargestellt werden.
Riva abbandonata Materiale per Medea
Paesaggio con Argonauti
di Heiner Müller
Medea
Non bussano al cesso
Ecco cosa sono Terra smerdata da chi gli sopravvive
QUALCUNO PENDEVA DAI LAMPIONI CON LA LINGUA PENZOLONI
E CON SULLA PANCIA IL CARTELLO SONO UN VILE
Sullo sfondo pero' Medea con il fratello
Il braccio Tagliato a pezzi L'esperta
In veleni
Riva abbandonata Materiale per Medea
Paesaggio con Argonauti
Lago a Straußerg Riva abbandonata Traccia
Di Argonauti dalla fronte piatta
Chiome di canna Ramaglia morta
QUESTO ALBERO NON CRESCERÀ SOPRA DI ME
Cadaveri di pesci
Barbagli nel fango Scatole di biscotti
Mucchi di letame PRESERVATIVI FROMMS ACT CASINO
Gli assorbenti igienici stracciati Il sangue
Delle donne della Colchide
MA TU DEVI FARE ATTENZIONE SÌ
SÌ SÌ SÌ SÌ
FIGA DI MERDA LE DICO QUESTO È IL MIO UOMO
STRAPAZZAMI VIENI CARO
Finché l'Argo non gli spacca il cranio vascello non più
Usato
Che sta appeso all'albergo hangar e latrina degli avvoltoi posati
in attesa
Appollaiati nei treni Facce di giornale e sputi
Ognuno indurisce nei calzoni un membro nudo per un po' di carne
Laccata lavandino che costa tre settimane di salario Finché
La lacca non si crepa Le loro donne tengono in caldo il pranzo appendono
le lenzuola alle finestre spazzolano
Gli avanzi del vomito dell'abito della domenica Tubi di scarico
Che vomitano bambini a grappoli incontro all'avanzata dei vermi
La grappa è a buon mercato
I bambini pisciano nelle bottiglie vuote
Segno di un immane
Accoppiamento a Chicago
Donne imbrattate di sangue
Negli obitori
I morti non sbirciano dalla finestra
Materiale per Medea Paesaggio con Argonauti
MEDEA:
Giasone Mia prima e ultima nutrice
Dov'è mio marito
NUTRICE:
Dalla figlia del re Creonte signora
MEDEA:
Da Creonte hai detto
NUTRICE:
Dalla figlia di Creonte
MEDEA:
Si Hai detto dalla figlia di Creonte ho capito
E perché dalla figlia Non ha forse potere
Su Creonte sul padre Lui può farci restare
A Corinto per tutto il tempo che vogliamo
Oppure mandarci via e cacciarci lontano
Forse adesso Giasone le abbraccia le ginocchia
Ancora lisce e la implora per me e per i
Suoi figli che adora Nutrice, che fai
Stai piangendo o ridendo
NUTRICE:
Signora sono più vecchia del riso e del pianto
MEDEA:
E come fai a vivere tra le rovine del
Tuo corpo e con gli spettri della tua giovinezza
Balia porta uno specchio Questa non è Medea
Giasone
GIASONE:
Cos'è questo tono
MEDEA:
Io
Non sono gradita qui Mi prendesse la morte
Tre volte cinque notti Giasone non hai chiesto
Di me Non con la tua voce e neppure con quella
Di uno schiavo e non con un gesto o almeno con
Uno sguardo
GIASONE:
Che cosa vuoi
MEDEA:
Morire
GIASONE:
Questa l'ho già sentita
MEDEA:
Non ti dice più niente
Questo corpo Vuoi bere il mio sangue Giasone
GIASONE:
Ma quando la finisci
MEDEA:
Quando è cominciata
GIASONE:
Cosa eri prima di me
MEDEA:
Medea
E tu Giasone mi sei debitore d'un fratello
GIASONE:
T'ho dato ben due figli in cambio d'un fratello
MEDEA:
Tu a me Se li ami anche tu i figli tuoi
Giasone, allora li vorrai riavere Sono tuoi
Cosa può essere mio Io sono la tua schiava
Non sono che strumento e anche quel che faccio
È tuo Ho ucciso e partorito sempre per te
Io che sono la tua cagna la tua brava puttana
Nient'altro che gradino per salire alla gloria
Glorificato solo dagli escrementi tuoi
E dal sangue versato dai tuoi molti nemici
E se per celebrare la tua grande vittoria
Sul mio paese e sulla mia nazione vittoria
Che hai strappato solo per il mio tradimento
Tu ti vuoi intrecciare alle tempie una corona
Fatta con le loro budella ebbene sono tue
Tuo il mio patrimonio, le smorfie degli uccisi
E gli urli degli scorticati tutte cose che
Conservo da quando ho lasciato la Colchide
Il mio paese, inseguendo le tracce del tuo sangue
Sangue d'un mio simile verso la nuova patria
Che era un tradimento Sono stata cieca e sorda
A quello che facevi finché non hai strappato
Il nido tessuto col mio e col tuo piacere
Che era la nostra casa ed oggi il mio esilio
Ora sto nella gabbia e sono qui tutta rotta
Con la cenere dei tuoi baci sulle labbra
E tra i denti tutta la sabbia dei nostri anni
Ma sulla pelle soltanto il mio proprio sudore
Mentre il tuo fiato puzza di un letto diverso
Un uomo alla sua donna dà come addio la morte
E la mia morte non ha altro corpo che il tuo
Sarò la tua donna finché sarai mio marito
Oh potessi strapparti coi denti dal tuo corpo
la puttana che ti è servita per ingannarmi
E rivedere, grazie al tuo tradimento
Che mi ridà la vista quell'altro atroce inganno
Che ti ha fatto godere: il mio tradimento!
Si Giasone vorrei rivedere quel che ho visto:
Le scene che hai inciso con i duri stivali
Dei tuoi soldati nella mia povera Colchide
E vorrei sentire la musica che hai suonato
Con mani di armati e anche con le mie
Che ero la tua cagna la tua brava puttana
Su corpi ossa tombe di tutta la mia gente
E anche del fratello sì di mio fratello che
Ho gettato a chi ti inseguiva Giasone
Tagliato a pezzi proprio da queste care mani
Di sorella per farti fuggire da mio padre
Padre anche suo che tu avevi rapinato
Se tu ami i tuoi figli vorrai pure riaverli
Questi figli tuoi! E sai che mi devi un fratello
Giasone Ma voi chi amate di più: il cane o
La cagna quando fate gli occhietti a vostro padre
E anche a quella sua cagna nuova e pure al re
Il cane qui di Corinto che è il padre di lei
Forse il vostro posto è alla sua mangiatoia
Prendi Giasone quello che mi hai regalato
I frutti dell'inganno fatti con il tuo seme
E riempine il ventre di quella gran puttana
È il mio dono di nozze per questo sposalizio
Andate con vostro padre che vi ama Così
Potrà buttar via vostra madre la barbara
Che è d'impaccio alla vostra ascesa nella corte
Non volete sedere a quell'altissima mensa
Io sono stata per voi un mucca da latte
Adesso sono solo il vostro poggiapiedi
Lo volete Non vedo splendere i vostri occhi
Nel pregustare la gioia d'aver la pancia piena
Ma che cosa vi tiene ancora incollati
A questa barbara madre che è la vostra tara
Figli recitate anche voi il tradimento
Affondate i denti dentro il mio cuore e andate
Con vostro padre che l'ha compiuto davanti a voi
Lasciami i bambini Giasone ancora un giorno
E poi ritornerò nelle mie terre deserte
Ricorda che mi sei debitore d'un fratello
Ma non riesco a odiare a lungo quel che ami
L'amore viene e va Io non sono stata saggia
A scordarmene No nessun rancore tra noi
Prendi il mio abito nuziale come regalo
Per la tua mi è difficile dirlo nuova sposa
Che abbraccerà il tuo corpo e piangerà sulla tua
Spalla qualche volta gemendo tra i sussurri
L'abito d'amore che è un'altra mia pelle
È stato ricamato con oro di Colchide
Dalle mani di quelli che abbiamo derubati
E colorato col sangue versato al pranzo
Nuziale di padri e di figli e di fratelli
Vorrei che rivestisse questo tuo nuovo amore
Come lo vestirebbe la mia stessa pelle
Così potrò starti vicina tanto vicina
Al tuo amore che pure è tanto lontano da me
E adesso Giasone va alle tue nuove nozze
Io farò della sposa una torcia nuziale
Guardate vostra madre bambini che adesso
Vi fa vedere un gioco Non volete anche voi
Vedere andare a fuoco la nuova sposa
L'abito di nozze della barbara ha lo strano
Potere di fondersi mortalmente addosso
A una pelle diversa Ferite e cicatrici
Dànno un buon veleno E quel mucchio di cenere
Che è stato il mio cuore sta risputando fuoco
La sposa è giovane tremendamente giovane
Come si stende liscia sul suo corpo la pelle
Che nessuna vecchiaia e nessun parto hanno
Ancora guastato Adesso le scrivo il mio
Spettacolo sul corpo Oh ma come vi voglio
Sentir ridere quando si metterà a urlare
Prima di mezzanotte sarà tutta una fiamma
Il mio sole si alza proprio sopra Corinto
Voglio vedervi ridere quando si leverà
Questo mio sole per prender parte alla mia grande
Gioia e al vostro spasso piccoli figli miei
Ecco lo sposo entra nella stanza nuziale
E lui depone ai piedi della sua nuova moglie
Il dono della barbara l'abito nuziale
Intriso del sudore della sottomissione
Mia Ecco ora corre allo specchio la sgualdrina
E adesso l'oro di Colchis le chiude i pori e
Le ficca nella carne una selva di pugnali
L'abito nuziale della barbara festeggia
Le tue nozze con la sposa vergine Giasone
Ed è mia la sua prima e ultima notte
Ah sì adesso grida Fatevi tutti orecchi
Così urlava la Colchide quando mi stavate
Nel corpo E ancora urla Fatevi tutti orecchi
Sta bruciando Ridete Vi voglio veder ridere
È una commedia il mio spettacolo Ridete
Ma come Lacrime per la sposa Ah miei piccoli
Traditori Però non avrete pianto invano
Io vi voglio estirpare tutti dal mio cuore
Voi carne del mio cuore e mia memoria O cari
Ridatemi il mio sangue qui dalla vostre vene
Su tornatemi dentro il mio corpo viscere mie
Oggi è giorno di paga Giasone oggi la tua
Medea finalmente riscuote i suoi debiti
Adesso si che ridete La morte è un regalo
Che voi riceverete dalle mie proprie mani
Ho rotto i ponti alle spalle con il mio paese
E adesso non rimane dietro a noi che questa
Terra straniera che a voi non può essere
Patria se non per mia vergogna Con le mie mani
Ahi se fossi rimasta quella belva che ero
Prima che uomo facesse di me la sua donna
Medea la barbara che adesso è ripudiata
Ora però con queste mie barbariche mani
Ruvide per il tanto lavare e cucire
Voglio spezzare in due tutta l'umanità
E sedermi nel vuoto tra due tronconi Io
Ne donna ne uomo Che cosa gridate a fare
Assai peggio della morte è diventare vecchi
Voi bacereste grati la mia mano che adesso
Vi regala la morte se soltanto sapeste
Che cosa è la vita Così è andata a Corinto
Ma voi chi siete e chi vi ha vestiti in questi
Corpi dei miei bambini Anche nei vostri occhi
Si nasconde una belva Su adesso da bravi
Stendetevi a morire Non ingannate me che
Sono la vostra madre Voi siete traditori
Istrioni e bugiardi posseduti da cani
Topi e serpenti Qualcosa abbaia dentro di voi
E squittisce e fischia Lo sento così bene
Oh sono furba io Sono Medea io
Non avete più sangue Adesso tutto è calmo
E sono zittite anche le grida di Colchide
E più niente
GIASONE:
Medea
MEDEA:
Balia chi è questo qui
Paesaggio con argonauti
Dovrei parlare di me IO chi
Di chi si parla SE
Si parla di me Io Chi è quello lì
Nella pioggia di guano impellicciato di calce
O che altro Io una bandiera uno
Straccio insanguinato appeso Uno svolazzare
Tra il Nulla e Nessuno sempre che ci sia vento
Io avanzo di un uomo Io avanzo
di una donna luogo comune su luogo comune Io inferno da sogno
Che porta i miei nomi accidentali Io paura
Dei miei nomi accidentali
MIO NONNO ERA UN IDIOTA
DELLA BEOZIA
Io significa viaggio in mare
Io significa conquista di una terra Il mio
Passo attraverso i sobborghi della città Io La mia morte
Nella pioggia di guano impellicciato di calce
L'àncora è l'ultimo cordone ombelicale
Insieme all'orizzonte svanisce la memoria della costa
Gli uccelli sono un addio Sono un rivederci
L'albero abbattuto taglia il serpente e la fiancata della nave
Ara il mare sottile fra Io e non più Io
FIDANZATA DEL MARINAIO
È L'ACQUA DEL MARE
I morti si dice stanno sul fondo
Nuotatori eretti Finché le ossa non riposano
Coito di pesci nella casa vuota del torace
Conchiglie nel cranio
Sete è fuoco
È acqua quel che brucia la pelle
La polpa del dente mastica fame Le labbra sale
Sconcezze pungono la carne solitaria
Finché l'uomo non cerca l'uomo
Il calore di donna è una litania
Le stelle sono freddi segnavia
Il cielo esercita glaciale sorveglianza
Oppure lo sbarco senza gioia Lì in faccia al mare
Mitraglia di schiocchi delle birre aperte
DALLA VITA DI UN UOMO
Ricordo di una battaglia di carri armati
Il mio passo nei sobborghi della città Io
Tra macerie e calcinacci cresce
Il NUOVO Celle per chiavare con teleriscaldamento
Lo schermo sputa mondo nella sala
L'usura è pianificata Il container
serve da cimitero Figure nella discarica
Nate dentro il cemento Parata
Di zombi perforata da spots commerciali
Nelle uniformi della moda di ieri mattina
La gioventù di oggi Fantasmi
Dei morti della guerra di domani
CIO' CHE RESTA PERO' LO SEMINANO LE BOMBE
Nell'accoppiamento sontuoso tra albume e scatole di latta
I bambini schizzano paesaggi con l'immondizia
Una donna è il solito raggio di luce
TRA LE COSCE LA
MORTE PUO' SPERARE
Oppure il sogno jugoslavo
Tra statue rotte nella fuga
Di fronte ad una catastrofe ignota
La madre a rimorchio la vecchia col fagotto appeso al bastone
Corre nella corazza arrugginita IL FUTURO CON
Un gruppo di attori passa a passo cadenzato
NON VI ACCORGETE CHE SONO PERICOLOSI SONO
ATTORI UN CANE VIVE OGNI GAMBA DELLA SEDIA
Fanghiglia di parole che sale dal mio
Abbandonato corpo di Nessuno
Come scegliere dal groviglio
Dei miei sogni che tutt'intorno a me
Cresce silenziosamente e lentamente
Un brandello di Shakespeare
Nel paradiso dei batteri
Il cielo è un guanto che va a caccia
Mascherato con nuvole di ignota architettura
Corre sull'albero morto Le sorelle dei cadaveri
Le mie dita giocano nella fessura
Di notte alla finestra tra città e campagna
Guardavamo il lento morire delle mosche
Così stava Nerone guardando Roma dall'alto con pensieri sublimi
Finché la macchina andò avanti Sabbia nell'ingranaggio
C'era un lupo sulla strada quando andò in pezzi
Viaggio in pullman all'alba a destra e sinistra
Le sorelle fumanti sotto le vesti Il pomeriggio
Spargeva la sua cenere sul mio mantello
Durante il viaggio abbiamo sentito il telone che si strappava
E abbiamo visto le immagini confondersi
I boschi bruciavano IN EASTMAN COLOR
Ma il viaggio era senza arrivo NO PARKING
All'unico incrocio con un occhio solo
Polifemo regolava il traffico
Nostro porto è stato un cinema morto
Sul telone le star marcivano a gara
Alla cassa Fritz Lang strangolava Boris Karloff
Il vento del sud giocava con vecchi cartelloni
OPPURE LO SBARCO SENZA GIOIA I negri morti
come pertiche conficcate nello stagno
Nelle uniforme dei loro nemici
DO YOU REMEMBER DO YOU NO I DONT
Il sangue rappreso
Fuma nel sole
Il teatro della mia morte
Era già aperto quando stavo tra le montagne
Nel gruppo dei compagni di strada morti sulla pietra
E su di me è comparso l'atteso aeroplano
Senza pensarci io sapevo
Che questa macchina era
Quella che le mie nonne chiamavano Dio
Lo spostamento d'aria ha spazzato i cadaveri dall'altopiano
E mentre fuggivo barcollando sentivo un rumore di spari
E sentivo il MIO sangue uscire dalle MIE vene
E il MIO corpo che si trasformava nel paesaggio
Della MIA morte
ALLE SPALLE IL PORCO
Il resto è letteratura Chi ha denti migliori
Il sangue o la pietra
Nota dell'autore al testo
Il testo richiede il naturalismo della scena Riva abbandonata può essere rappresentato durante il programma di un peep-show, Materiale per Medea in riva ad un lago nei pressi di Strausberg , che può essere un piscina fangosa di Beverly Hills o i bagni di una clinica psichiatrica. Come Mauser presuppone una società di trasgressione, in cui un condannato a morte possa trasformare la propria morte reale sulla scena in un'esperienza collettiva, così Paesaggio con Argonauti presuppone le catastrofi che l'umanità sta attualmente preparando. Il paesaggio potrebbe essere o una stella estinta dove una pattuglia di ricerca proveniente da un altro tempo o da un altro spazio ode una voce e trova un morto. Come in ogni paesaggio, in questa parte del testo l'Io è collettivo. La simultaneità delle tre parti del testo può essere illustrata a piacere.